La storia orale di un film riuscito
La racconta il New York Times a proposito di "Mad Max: Fury Road", uno degli ultimi e spettacolari film d’avventura dove gli stuntman fanno veramente gli stuntman
Certi film richiedono annose preparazioni, si interrompono, poi ripartono, riescono ad arrivare sul set, di nuovo arrancano, sono complicati da girare. Quando nessuno più sembra scommetterci, escono perfetti. Alla categoria appartiene “Via col vento”, ufficialmente firmato da Victor Fleming. Il produttore David O. Selznick in prima battuta aveva scomodato George Cukor, rifiutato da Clark Gable perché “regista di donne”. E fece arrabbiare tutti dicendo: “I registi vanno e vengono, i film sono di chi li produce”. Alla categoria appartiene il “Titanic” di James Cameron, la troupe allo stremo per le fatiche si era fatta stampare le magliette “Sono sopravvissuto al Titanic”. Alla categoria appartiene “Mad Max: Fury Road”, presentato in anteprima mondiale a Cannes nel 2015. Molto applaudito in proiezione stampa. Anche a scena aperta: ai festival non succede quasi mai (e se succede, sono battimani che valgono quanto una pernacchia).
Al botteghino fece 375 milioni di dollari, ne era costati 150. Son cose che a Hollywood non dimenticano. Non le dimentica neanche lo spettatore, mentre gode uno degli ultimi e spettacolari film d’avventura dove gli stuntman fanno veramente gli stuntman. Gli attori – Tom Hardy e Charlize Theron – sono davvero nel deserto, e le macchine-robivecchi (il marchio della saga iniziata con Mel Gibson nel 1978) cascano a pezzi per davvero. Se finora non vi siete fidati, lo trovate su Netflix. Se vi siete fidati, e volete sapere come è stato possibile il miracolo, il New York Times racconta la “storia orale” di “Mad Max: Fury Road”.
Dicesi “storia orale” il genere giornalistico dove gli intervistati raccontano dettagli e aneddoti. Il sentimento profondo di Charlize Theron quando le raparono i capelli a zero non interessa a nessuno. Interessa il fatto che un’imperatrice guerriera non può girare per il deserto in abiti svolazzati e lunghi capelli al vento, come nei primi bozzetti della costumista. Era il 1998 quando l’inventore della saga George Miller cominciò a pensare al quarto capitolo: un forsennato inseguimento (a caccia di cosa non lo diciamo, semmai voleste convertirvi a uno spettacolo grandioso e di grande soddisfazione).
Falsa partenza, nell’intervallo George Miller girò “Happy Feet”, il film d’animazione con i pinguini che ballano (lo dicono a scuola che la regia è un mestiere? Dovrebbero). Quando riprese in mano il progetto, Mel Gibson aveva 50 anni – ed era decotto per altri motivi suoi, mogli malmenate e deliri antisemiti. Fu scelto Tom Hardy, anche perché stava bene con la museruola. Lui scappa perché lo usano come fornitore di ricambi umani. Charlize Theron-Furiosa scappa con un gruppetto di belle fanciulle, mogli del tiranno Immortan. Per istruirle alla ribellione femminile, George Miller chiamò sul set come coach Eve Ensler, la scrittrice dei “Monologhi della vagina”.