Un bellissimo smart festival
Cannes salta: è il segnale che la situazione è molto seria. Ma perché non trasferirlo nelle camerette? Il cinema è cambiato, c’è lo streaming, e solo certi carrozzoni per critici restano uguali a se stessi
Ognuno solo nella sua cameretta, davanti al computer. Non può essere questo il futuro dei festival”. Era Peter Bradshaw sul Guardian, un paio di settimane fa. Mancava ancora un po’ di tempo, cercavamo di fare i disinvolti: niente giocattolo nuovo quest’anno, possiamo sopravvivere da personcine adulte quali siamo. Maldestre bugie, per smascherarle (oops, altro verbo ormai inutilizzabile, dopo che “virale” ha ripreso la sua concretezza e pericolosità) è bastato l’arrivo del 12 maggio. La data d’inizio del Festival di Cannes 2020, che non esiste più.
Era successo solo una volta, per via della Seconda guerra mondiale. E mezza volta per via del maggio parigino: l’avevano fatto chiudere i registi quindi a rigore non vale, non è forza maggiore. La Sars e l’eruzione del vulcano Eyjafjallajökull avevano fatto un po’ di paura e basta. L’11 settembre aveva portato con sé i metal detector e le perquisizioni. L’attentato a Nizza aveva aggiunto qualche transenna alle tante che segnavano i percorsi obbligati (ogni tentativo di scavalcamento, perché in affannoso ritardo per la proiezione, provocava l’intervento di almeno due “gendarmes”).
Quando il direttore Thierry Fremaux ha dato il ferale annuncio, dopo aver cercato invano soluzioni alternative – si farà tra giugno e luglio, sarà comunque un vero festival con le ali di folla e le lunghissime code che segnalano l’esclusività dell’evento – abbiamo capito che il virus faceva sul serio. Escluso da subito un Festival di Cannes online, retromarcia – o meglio deviazione – adottata dal Marché du Film che ha spostato la data, si farà dal 22 al 26 giugno. Chi deve vendere, comprare, produrre e coprodurre film non può permettersi di indugiare nel tormento. Né vede di malocchio Netflix né le altre piattaforme: son clienti come gli altri, con un ricco portafoglio.
Il direttore Thierry Fremaux ha dato il ferale annuncio. Era successo solo durante la Seconda guerra mondiale. Sarebbe stato meglio di niente, il computer nella cameretta e la segretissima password per accedere alle proiezioni
Ognuno nella sua cameretta, con il computer, non sarà il futuro dei festival cinematografici. Ma date le circostanze, per quest’anno poteva bastare. Esistono – ditelo a Frémaux che considera “televisione” anche le piattaforme streaming, e retrodata la rivalità agli anni Cinquanta del novecento – anche schermi casalinghi assai più grandi di un portatile (su un monitor hd si distinguono benissimo anche i nei di Morgan Freeman, nero su marrone). Ci saremmo organizzati tra congiunti: perché tali siamo, noi che da anni cominciamo a parlare di Cannes un paio di mesi prima del maggio, e finiamo un mese dopo.
Non per esaurimento della materia. Solo perché nelle sale italiane giugno segnava l’inizio del torpore estivo, e i film del festival di Cannes erano riservati a tempi migliori. Sarebbe stato bello, invece, allargare le chiacchiere tra congiunti anche agli amici che nel frattempo erano riusciti a vedere il film in sala (e non via pirateria, che sembra sparita dai discorsi, anche in questo tempo di crisi).
Esempio pratico, senza andare lontano: il bellissimo “Les Misérables” di Ladj Ly, vincitore l’anno scorso del premio speciale della giuria, andrà in streaming oggi. A metà del Festival di Cannes successivo, se il 2020 non fosse stato annullato: almeno dieci di questi mesi non sono imputabili al virus, che pure sistematicamente cerca di distruggere tutte le cose che ci piacciono.
Lasciati i congiunti festivalieri per il congiunto legittimo, dopo undici giorni di grandiosa scorpacciata, c’era il commento alla premiazione, il calcolo delle ingiustizie, i “bisognava attaccarsi alle transenne” (nel senso della protesta), le scoperte. Come se tutto il mondo (che allora frequentavamo a meno di un metro) fosse vissuto nella stessa bolla nostra, che aprivamo il giornali alla pagina degli spettacoli, davamo un’occhiata, e ci tuffavamo dentro Variety, Hollywood Reporter, Screen International con le sue stelle e le sue palmette. Con la stessa velocità con cui Grace Kelly in “La finestra sul cortile” passava da “Life” a “Vogue” appena James Stewart si appisolava. (Il resto del mondo voleva sapere se eravamo stati alle feste con Brad Pitt e George Clooney: con vergogna bisognava confessare che no, lo champagne scorre copioso per i buyer che comprano i film, i giornalisti al massimo si imbucano, e i divi appaiono cinque minuti nel privé).
Sarebbe stato meglio di niente, il computer nella cameretta e la segretissima password per accedere alle proiezioni. Magari accompagnata dalla parola d’ordine “Fidelio”, come l’orgia di “Eyes Wide Shut”, con i partecipanti mascherati (di nuovo, ma per dire quegli allegri gadget di carnevale, come faremo?). Proiezioni divise per turni, ché le gerarchie di accredito sono e rimangono sacre (l’anno scorso era stata goffamente organizzata una proiezione carbonara, segretissima: ma sulla Croisette ci conosciamo tutti, le rivoluzioni sono difficoltose).
Ci sarebbe stato un problema di sicurezza, per le grandi produzioni – il film del Burkina Faso, detto con rispetto, non richiede ore in fila ad aspettare. Nulla che non si potesse risolvere: Hbo, Mgm, Amazon e altri americani gentilmente ci fanno vedere film e serie in anteprima – anche il ricercatissimo “Racconto dell’ancella”, anche “Big Little Lies” zeppa di star. (Poi capita di sentirsi negare il link di un regista italiano esordiente: accadeva, precisiamo, prima dell’epidemia e della chiusura delle sale: ora i produttori e i distributori son più cortesi). La sicurezza si poteva risolvere, con i potenti mezzi e il prestigio di Cannes. Se non ci fossero state preclusioni ideologiche.
Il direttore Thierry Frémaux ha escluso che il Festival si potesse fare in streaming, sia pure parziale. I distributori francesi già avevano chiesto la sua testa qualche anno fa: aveva messo in concorso un paio di titoli Netflix, erano belli e li avrebbe pure premiati. Resi più nervosi dalla chiusura delle sale – e dall’arrivo di Disney +, in tempo per tenere i piccini tranquilli prima che riaprissero le scuole – all’idea di un festival online sarebbero scesi in piazza ben distanziati, ma con i forconi.
Cannes farà quindi la sua selezione come se nulla fosse successo, e affiderà i titoli orfanelli alla carità di festival più fortunati. Primo genitore adottivo, la Mostra di Venezia (che ha già i suoi problemi, settembre non è lontanissimo e un festival senza ospiti internazionali non viene bene). Poi saranno sensibilizzati alla causa Toronto, San Sebastian, Zurigo (qualcuno oserà dire no?).
A questo punto, la cameretta con lo streaming sta davvero nei nostri sogni. Pochi, maledetti, e subito. Anche comodi. Perché dobbiamo aspettare che di nuovo ci si possa mettere in coda, in piedi, ore prima che cominci la proiezione sennò non si entra? Sarebbe una bella occasione per uno smart-festival. C’è ancora gente convinta che il cinema sia quello muto e in bianco e nero, con il pianista in sala per accompagnamento, ma da allora abbiamo fatto parecchi passi avanti.
La lista dei papabili sulla Croisette – anticipata, ripulita dalle delusioni e dai dispersi che avremmo saputo solo in conferenza stampa – genera inesauribili tormentoni: troppe vecchie cariatidi (più gentilmente “i soliti noti”), troppe periferie del mondo, troppe periferie francesi, troppi registi che della vita conoscono solo il festival e una manciata di critici adoranti, non c’è verso che ne esca un film con con un po’ di energia dentro.
Il film che più di tutti avremmo voluto vedere nella nostra cameretta era “Soul” di Pete Docter, ultima prodezza Disney Pixar. C’è ancora gente convinta che il cinema sia quello muto e in bianco e nero, con il pianista in sala per accompagnamento
E’ come il saltello per i pugili: ci si scalda per i combattimenti veri, quelli che si scatenano all’uscita della sala – con uno sguardo di compatimento a chi entrerà in seconda proiezione, provvisto di tessera meno prestigiosa (si fa sempre per dire, rimane una guerra tra poveri). A volte – scrive un critico del Guardian – neanche ricordiamo bene l’esotico titolo del film, di una sezione defilata. Rischiamo di far confusione con il nome di un ristorante appena scoperto dal critico medesimo.
Si salvano i nomi da applauso immediato, Wes Anderson per esempio (non abbiamo aggiunto per noi, chi non ama il texano di “Grand Budapest Hotel” merita Manoel De Oliveira tutta la vita). Titolo: “The French Dispatch”: non solo è ambientato in Francia ma parla pure di giornalismo (pare un altro, mondo ma è il bello del cinema, mica vogliamo vedere le tristezze neo-neorealiste che già qualcuno pregusta, per accompagnare la ricostruzione post coronavirus: si teme che il “dopo”, quando smetteranno di fare i virologi e gli epidemiologi e vorranno esprimere le loro emozioni sarà peggio del “durante”).
C’era una certa curiosità per “Tre piani” di Nanni Moretti, tratto dal romanzo dello scrittore israeliano Eshkol Nevo (sulla carta, sembrano lontanissimi: gente che fa il servizio militare obbligatorio e gente che fa giocare i cardinali a pallacanestro). Il film che più di tutti avremmo voluto vedere nella nostra cameretta era “Soul” di Pete Docter, ultima prodezza Disney Pixar – speriamo, la penultima “Onward” era piuttosto moscia. Dopo le emozioni che in “Inside/Out” (sempre diretto da Peter Docter) litigavano per le manopole del quadro comandi nella testa della ragazzina Riley, qui abbiamo un’anima che si stacca dal copro di un musicista nero. Scopriremo il grande Aldilà e il grande Aldiqua, dove le anime acquisiscono le loro stranezza e idiosincrasie prima di scendere sulla terra fare il loro lavoro.
Vedere i film online avrebbe alleviato almeno un po’ il dolore. Dopotutto siamo in grado di distinguere un film bello da uno brutto, anche senza l’incombere di un gigantesco schermo e di un vicino che insistentemente tossisce. Non avete idea di quante volte è successo. Quanti accreditati abbiamo visto barcollare dopo lauti pasti: le poltrone sono comode e ampie, ma il festivaliero alticcio straripa dal bracciolo e non sente il cellulare che spara a volume altissimo “Toreador”. Certo, sarebbe stato un punto di non ritorno. E infatti – piena confessione – da un po’ di anni siamo assaliti da un incubo. E se poi capiscono che tutto si può fare da casa, con le tecnologie moderne? E i meravigliosi dieci giorni di Cannes non si faranno più? Speriamo che almeno rimanga la borsa regalo, diversa ogni anno, spedita nella nostra cameretta via Dhl.
Politicamente corretto e panettone