Vestivamo alla montanara
La famiglia, le vacanze, Sabaudia, Moravia. “Magari” non sono gli Elkann, dice Ginevra. O forse solo un po’
Ginevra Elkann risponde a questa seduta di psicanalisi agnelliana su Skype da una magione toscana, non c’è campo, casca la linea, riproviamo su whatsapp, poi sul telefono normale, poi casca pure quello, forse lo fa apposta perché non ne può più – l’intervista si fa in due turni: prima, sfondo di tende fiorate e librerie vuote – a certi livelli la Treccani dietro non serve. Poi, lei rispunta da un campo di grano. In una campagna ha trascorso il lockdown, e lì è rimasta. La descrivono sospettosa, e spiritosa. E’ gentile, ha una faccia botticelliana. Quando le chiedi della famiglia arriva il cambiamento posturale, si ritrae, incrocia le mani, guarda da un’altra parte. Non sbuffa perché è stata educata a non sbuffare. Finalmente ha fatto quello che voleva fare, un film suo, da regista, a 40 anni, e ha un po’ di notorietà tutta sua.
Il suo “Magari”, vittima del Covid, si vede su RaiPlay, invece che al cinema. Tema: un inverno a Sabaudia, anni 90 malinconici
Le chiedono tutti della famiglia. “Tutti”, dice gentile e con quell’aria regale-terrorizzata. E’ la meno celebrata dei nipoti di Gianni Agnelli, quel che resta di una grande storia italiana (l’anno prossimo saranno i 100 anni dalla nascita dell’Avvocato. Per la mia generazione, roba seria). Il suo “Magari”, vittima del Covid, si vede su Raiplay, invece che al cinema. Tema: un inverno a Sabaudia, anni Novanta malinconici, ragazzini aristocratici e un po’ sperduti sbarcano conciati da sci a Fiumicino, dove un papà sceneggiatore li trascina tra Roma e il litorale. Somewhere in southern Italy.
Certo bisognerebbe parlare del film, però è ovvio che noi tutti vogliamo soprattutto frugare nel mobilio, vedere se la bambina Alma che sogna una famiglia unita sia lei, se l’adolescente malmostoso è John, oggi erede multinazionale di ciò che era il mondo Fiat, se il Jean scapestrato e tenero che casca in continuazione è Lapo. Siamo cresciuti con le copertine di Capital: taluni con l’orologio sopra il polsino. Abbiamo diritto di sapere.
Cominciamo la seduta: di sicuro la mamma religiosissima Charlotte è Margherita Agnelli, la figlia dell’Avvocato un po’ stramba, che a un certo punto dopo uno scrittore ebreo francese sposerà un conte russo e sfornerà altri cinque figli, e si metterà a dipingere icone ortodosse. Icone e santi che pullulano nel film. Infanzie non allegrissime, pare. “Sì, eravamo molto religiosi, mia mamma è molto religiosa”, dice Ginevra. “Io però sono agnostica”.
“E’ un film su una famiglia, non sulla mia famiglia. Racconta il dolore di una separazione. I sogni dei bambini. Essere genitori di quella generazione”
E il papà Elkann? Sorge il dubbio che ci sia una piccola vendetta verso Alain, leggendaria eleganza, nel film dipinto invece come Carlo, cinematografaro romano non troppo chic né talentuoso, uno Scamarcio più efficace nell’imitazione di Lino Banfi che non nella stesura di copioni. “Ma quello non è mio padre”, dice Ginevra, “nessuno è com’è”; e poi “mio papà è del nord, lì il personaggio è romano”. “E poi lui essendo uno scrittore sa benissimo come funziona”, “capisce la trasformazione del personaggio”; poi però tentenna. “Certo ha qualcosa, ma anche di tanti altri papà, di quei papà di quella generazione”; e poi Alain “non aveva quelle pannes creative”, dice nella mancanza d’accento franco-torinese, con lunghe pause (e infatti, senza pannes, quasi trenta libri!). Poi ci ripensa. “Ecco, però come Carlo aveva tante fidanzate, quello sì”.
“Sabaudia non era il luogo classico delle nostre vacanze da piccoli”, dice Ginevra. Però c’è tornata recentemente, d’inverno, e ne è rimasta affascinata. E poi il vero papà Elkann li portava veramente lì, perché stava scrivendo un libro-intervista ad Alberto Moravia. L’anziano scrittore “si faceva fare delle cose tremende da noi bambini. C’era una vigna sulla terrazza e noi piccoli facevamo una specie di vino e glielo davamo e lui stava al gioco, lo beveva, poi andavamo a un parco giochi e lui stava lì per ore a guardarci. Abbiamo passato tante estati così, mentre mio padre scriveva questo libro”. La casa del film non è però quella Moravia, ma un’altra sulla spiaggia, che sembra sia dalla parte del lago ma invece no – c’è tutta una letteratura e un sottotesto, sulle ville di Sabaudia: nel film i ragazzi saltano anche dentro la mitologica Torre Paola, proprietà del marchese del Pennino recentemente scomparso, mentre per le riprese si era vagliata anche casa dell’indimenticato Paolo Giaccio… E sullo sfondo villa Volpi, di quella Lily Volpi che educò sua nonna Marella al grande stile, narra la leggenda – ma in realtà la prescelta è “una vecchia casa Busiri-Vici”, col tetto a dune su cui scorrazzano i bambini. “Ne abbiamo viste tantissime”, dice Ginevra, ma questa “aveva delle maniglie, delle porte… e un sapore…” che si intuisce essere il sapore délabré, il sapore forse di quell’infanzia. Poi quando le chiedi: e le vacanze, dove le facevate? Subito si ritrae. “Un po’ dai nonni” (tradotto: da Gianni e Marella Agnelli a Villar Perosa) “un po’ dagli zii in toscana” (dai Caracciolo a Capalbio). “Tanti posti diversi, insomma”. Vogliamo sapere tutto: in fondo sono o son stati la nostra royal family: ma invece che avere la serie su di loro, abbiamo il film fatto da lei. Ecco perché si è morbosi.
“Sabaudia non era il luogo classico delle nostre vacanze da piccoli”, dice Ginevra. Però c’è tornata recentemente, d’inverno
“Insomma, erano vacanze come tutte le altre, erano vacanze dai nonni, leggevi e ti tuffavi”, quasi sbuffa lei, anche se non sbuffa, però il mio, di nonno, guidava una macchina costruita dal suo, di nonno (una 125 S blu, magnifica), e gli amici di suo nonno erano Truman Capote e Kissinger. Ma insomma. Le fanno tutti le stesse domande? “Sì”. La voce aristometallica a volte ride, di nervoso, di timidezza; adesso ha fatto un film, e vuole essere interrogata su quello. Sì, sì. Dopo. Intanto ci dica: è vero che non mangiavate mai? Nel film la povera bambina Alma è costantemente affamata, a partire dalla micidiale comunione ortodossa iniziale che lei fa sognando un pain au chocolat. A un certo punto farà delle uova sode. Si dice che i Caracciolo fossero particolarmente amati dagli Elkann bambini perché da loro, a differenza che a casa, si mangiava. “Ma veramente volevamo bene agli zii Caracciolo anche per altre ragioni”, ride. “E non so perché resiste ancora questo mito che a casa Agnelli non si mangiasse. L’ho sentito anche recentemente in una vecchia intervista a Alberto Sordi, invitato a pranzo da mio nonno, e arrivava solo una foglia d’insalata, e lui doveva chiedere un piatto di spaghetti. Posso assicurarle che si mangiava eccome. C’era molto il gusto della cucina dai miei nonni, anzi. Poi forse in certi periodi saranno stati a dieta, ecco”. Certo a parte i dettagli alimentari doveva essere curioso il matrimonio tra la figlia dell’industriale principe d’Italia e uno scrittore francese; lei sembra aver ereditato comunque il gusto agnelliano della battuta definitiva-tagliente. “Ah, mi piacerebbe saperlo anche a me, com’era questo matrimonio, perché io non l’ho mai vissuto”, dice Ginevra-Alma.
“E non so perché resiste ancora questo mito che a casa Agnelli non si mangiasse. Posso assicurarle che si mangiava eccome”
Qui si continua a sognare la serie, anche perché i personaggi migliori forse sono rimasti fuori campo: le persone più fondamentali par di capire son state le nonne: Marella, naturalmente. Così ha chiamato sua figlia. Adesso ci sono due Marelle, pure la cugina Marellina Caracciolo, come vi regolate? “La mia la chiamiamo Mare”. E poi la nonna paterna, Carla Ovazza, “una donna molto forte con una vita molto complicata e difficile, scappata durante la guerra, rapita”. Fu la prima donna sequestrata in Italia, “famiglia sefardita di banchieri torinesi, seppellita accanto a Primo Levi, con cui andava in bicicletta”, scrive Marco Ferrante nel manuale del settore, Casa Agnelli. Il nonno paterno invece era Jean Paul Elkann, altro personaggione, “presidente della comunità ebraica di Francia”, dice Ginevra, “banchiere, industriale, fondatore dei profumi Caron. Molto severo. Molto bello. Molto francese. Molto diverso da mia nonna. Io ero più presa dalla nonna”, e qui Ginevra sembra voler ribadire la sua alterità. Il suo film infatti insegue le emozioni, non i blasoni, in un filtro seppiato alla Ghirri (fotografo dell’Italia malinconica-struggente che a Ginevra piace molto). In questo il suo film è anche diverso da altri di un genere apparentemente simile, aristofreak subalpino, quello di Valeria Bruni Tedeschi, dove però si indugia sulla cornice sociale. Più liquidità, meno intimità (ci saranno rapporti? Là Ceat, qui Fiat. E in fondo i Bruni Tedeschi facevano le gomme per le Fiat). Poi lì c’è il bonus della mamma, la leggendaria Marisa Borini. Sua mamma Margherita Agnelli farebbe una parte? “Non credo”. Ha visto il film? “Non credo”. Dalla Russia con amore. Ci si sente biechi a far tutte queste domande. E però, si metta nei nostri panni: infanzie meno cosmopolite; famiglie unite, ma senza elicotteri: si sognavano divorzi, e cani Husky. E giù autoanalisi. Ero piccolo, mi ricordo Gianni Agnelli intervistato da Enzo Biagi. Era una sera di Sanremo. Alla fine dell’intervista Agnelli diceva che non l’avrebbe guardato, il festival. Biagi risponde: “Avvocato, non sa cosa si perde”. Agnelli: “Non sapete cosa vi pevdete voi”. In quello scambio, il primo industriale d’Italia era al massimo del suo fulgore, ancora al massimo della rappresentanza identitaria-sociale, la dinastia quasi-reale in un paese che aveva abolito la monarchia anni prima. Adesso la normalizzazione, la Fiat che si chiama Fca, lo stemperamento. E lei che si mette a fare il cinema. Prima sottotraccia, poi da regista. Le chiedo se per lei è più facile essendo della famiglia… e poi salta la voce. “Meno amata?” conclude lei la frase, forse con lapsus. No, volevo dire meno in vista, meno sotto i riflettori. Prima dice diplomaticamente (è molto diplomatica) che lei era piccola, insomma non si accorgeva bene del ruolo della famiglia, poi: “Adesso è possibile fare una vita più normale, sì”. Però questi bambini depositati continuamente in aeroporti a differenza del loro nonno Sanremo forse lo sognavano: anche nel film, canzonette italiche sorprendenti. “La musica italiana che ci arrivava all’estero era quella. Toto Cutugno. Ricchi e Poveri. Eros Ramazzotti”.
E’ stufa? “Sì”. “E’ un film su una famiglia, non sulla mia famiglia”. “Che racconta il dolore di una separazione. I sogni dei bambini. Essere genitori di quella generazione”. Eh, ma come si fa a raccontare i sentimenti quando nel Novecento avete allevato gli italiani con “solo le cameriere si innamorano”. Saghe di tate efferate che minacciavano: “don’t forget you are an Agnelli!”. Ma il film è delicato, e tenero, anche con bambini-attori che hanno nomi come “Oro” e cognomi come “Giustiniani”. Lei comunque sembra aver trovato pace, dopo varie peregrinazioni – infanzia appunto sballottata, tra Parigi e Rio, scuola di cinema a Londra, direzione della pinacoteca Agnelli a Torino – proprio a Roma. La si vede spesso in giro, esce, frequenta. Non ha paura di venir risucchiata. D’essere inghiottita dalla romanella. Dai cinematografari. Vogliamo proteggerla. Ci sentiamo responsabili. Ma lei pare contenta. “A Roma devi trovare la tua dimensione, il tuo modo di viverla”, si anima. Chi la conosce dice che con la sua venuta nella capitale abbia finalmente trovato un’identità. Er cinema, er sole. Anche una città in cui è facile mimetizzarsi. “C’è la luce, c’è il clima, ci sono i ritmi più lenti”, dice. “Certo, la città è tenuta malissimo, ma non farei mai cambio, quando vado a Londra mi manca la luce”. A Milano poi non ne parliamo. “Mi perdo, non lo so, non c’è un fiume, c’è qualcosa in quella città di molto complicato”. A Roma invece no. Non teme di venirne trasformata? “Ma se proprio, mi ha trasformato in meglio: da quando sto qui ho la mia famiglia e faccio il lavoro che volevo fare. E poi ho sposato un romano. Pensavo che non avrei mai sposato un italiano, e invece”. Eh, però ha sposato un principe romano. Mica un gommista. “Eh già, un principe romano”, ripete lei mentre la linea va e viene. Alla fine è una cosa molto Agnelli, impalmare l’antico blasone. Sembra Vestivamo alla marinara, il libro della prozia Suni. Anche nel romanzo del 1975 c’era la parte in cui dal punitivo Piemonte i ragazzi Agnelli scendevano a Roma, guazzabuglio liberatorio, luce, felicità. E matrimoni araldici. Non sembra gradire molto il parallelo, però. “Era una donna molto forte, ha fatto il ministro, era molto avanti per i suoi tempi”. Ma rispetto al suo film e al suo mondo interiore quel libro era “qualcosa di molto diverso, lei raccontava una famiglia nel suo contesto sociale, cosa che a me non interessava. E’ un libro bellissimo, naturalmente, pieno di storie. Ma a me interessava invece fare un racconto intimo, dei sentimenti”. Potrebbe farne lei una versione cinematografica, insisto. “Io intanto ho fatto Vestivamo alla montanara. Con tutti quei bambini in moon boots”.
Politicamente corretto e panettone