Ridate a Sordi la sua follia
Attore, regista, ma soprattutto quel tipo di italiano che non è affatto “medio”, casomai pazzo. A cento anni dalla sua nascita, Albertone non è più solo l’anticomunista, ma un monumento al miglioramento sociale
La formulazione più precisa del fenomeno si deve a Rodolfo Sonego, in quel libro fondamentale che è “Il cervello di Alberto Sordi” di Tatti Sanguineti (Adelphi): “Non si tiene mai abbastanza conto del fatto che Sordi fosse veramente mezzo matto”. Ed è qui che crollano le scalcinate spiegazioni sociologiche, i cliché, le interpretazioni ufficiali, la “maschera”, lo “specchio”, Alberto Sordi “espressione del carattere nazionale” e “incarnazione dell’italiano medio”. Basta. Non se ne può proprio più. Restituiamo piuttosto Sordi alla sua follia. O si accetti il fatto che l’italiano medio è mezzo matto. Emblema, monumento, segno tangibile di questo pazzia è anzitutto il sacrario-museo-casa Sordi, il suo Vittoriale degli italiani matti, posato lì come un objet trouvé, tra Caracalla e il Circo Massimo.
A noi ci ha rovinato il Covid: da mesi si era programmato di celebrare il centenario di Sordi che cade giusto questo lunedì partendo dalla casa
AM: “A noi ci ha rovinato il Covid”, verrebbe da dire, perché da mesi si era programmato di celebrare il centenario di Sordi che cade giusto questo lunedì partendo proprio dalla casa. Avremmo voluto andarla a visitare, la villa Sordi, avevamo anche prenotato, ma è stata chiusa, riaprirà a settembre, dopo ampia sanificazione, con una grande mostra dedicata al Nostro.
MM: La villa misterica abitata con le amate sorelle, in un ménage molto pascoliano, è uno di quei monumenti che certi romani appassionati e non ti portano a vedere, la prima volta che arrivi nella capitale. Quel casone collocato in un posto un po’ assurdo, tra le terme di Caracalla e il Colosseo, in un quartiere signorile ma non troppo. Location eccentrica: per poche centinaia di metri non è sull’Appia Antica, dove avrebbe senso (quello è il regno della villa araldica); ma non è neanche in centro. Dunque né città né campagna, né centro né periferia. Location che racchiude tutta l’ambiguità di Sordi: casa né chiusa né aperta, oltretutto. Attrezzata per enormi rappresentanze, con cinema e sale da barbiere, ma non ricevevano mai nessuno da tempo, per la sopraggiunta leggendaria riservatezza; e diventa ben presto monumento, col suo proprietario dentro (del resto, in quella zona, può essere solo un museo). Ciò che colpiva erano le tapparelle, sempre abbassate. Quasi fino in fondo, diciamo al 90 per cento, e tutte allineate, sempre. Giorno e notte, col sole e con la pioggia. Si passava e si vedevano dalla strada. Come se qualcuno avesse avuto l’ordine di rispettare quella proporzione: il che rendeva il tutto allo stesso tempo rassicurante e inquietante. Anche la villa al mare a Castiglioncello, oggi in vendita, aveva sempre le tapparelle abbassate, giura chi c’è stato.
AM: La casa di Roma Sordi la compra nel ’53. Gli avevano offerto varie “soluzioni abitative”, come direbbe oggi un agente Tecnocasa, ma lui cercava “qualcosa di speciale”. Gli propongono questo gigantesco casale-fortino, tre livelli, ampio giardino, una specie di ziggurat che ora scruta e sorveglia il traffico di Roma tra San Giovanni e l’imbocco della Cristoforo Colombo. “Alle 9.30 del mattino mi fecero la proposta e alle 11 avevo già concluso”. Era anche contento di averla fregata a De Sica che avrebbe voluto comprarla prima di lui ma non aveva mai i soldi per l’offerta, era sempre in bolletta per colpa del casinò. Negli anni Sessanta, è teatro di grandi feste e andirivieni di dive e produttori, Loren, Magnani, Lollobrigida, Mangano, Ponti, De Laurentis, e poi Monica Vitti, Fellini, il compositore Piero Piccioni (Piccioni sta a Sordi come Morricone a Sergio Leone). L’aveva progettata Clemente Busiri Vici, e prima di Sordi fu dimora del gerarca Dino Grandi. Altri divi, altre feste. Grandi era la spina nel fianco di Mussolini, quello che presentò l’omonimo ordine del giorno al Gran Consiglio del 25 luglio 1943, e che a un certo punto accarezzò persino il sogno di sostituire il Duce con D’Annunzio. Poi si trasferì in Portogallo, come oggi i pensionati italiani.
MM: Come Del Noce, che non perde occasione per dire che “si sta benissimo”.
AM: Come la Fenech, anche lei ormai da tempo emigrata a Lisbona.
MM: Con lei aveva fatto “Io e Caterina”, una delle sue regie più lisergiche: anno 1980.
AM: Ecco, diciamolo subito. Qui noi abbiamo una passione feticistica per le regie di Sordi. Si dice sempre “bravissimo e irresistibile l’attore”, poi si è messo in testa di diventare regista e non ha più fatto ridere come prima. Ed è vero, ma proprio questo li rende così bizzarri. I film “di” Sordi (visivamente folli, sgangherati, montati e girati male ma di un male che finisce per sbaglio dalle parti del sublime) sono pesanti, tristi, molto angoscianti, magari si ride ma nell’horror vacui, e quasi sempre si sprofonda in un’oscura saudade romana, specialmente con “Io e Caterina”.
MM: Brutalismo sordiano. Quando uscì Her, celebrato film di Spike Jonze, sull’amore tra un umano depresso e una dama robotica-virtuale, i più anziani di noi sobbalzarono: Albertone l’aveva già fatto trent’anni prima. Lì Sordi è il dottor Enrico Melotti, esportatore di vini di mezza età che, stufo delle donne italiane e molto antifemminista, dopo una visita d’affari a New York si decide finalmente a comprare la sua donna oggetto elettronica.
Forse l’apice dei suoi personaggi è il più mobile: Silvio Magnozzi, intellettuale di sinistra, ex partigiano, giornalista, scrittore
AM: Peggio di Montanelli con l’abissina!
MM: La donna robot si rivela essere peggio di quella in carne e ossa, nella visione non proprio progressista sordiana. Il film si chiude con Sordi guardato a vista dalla sua Caterina, che ha imparato a ballare il tango, a protestare, sentirsi sola, fare ricatti morali, come una donna in carne e ossa (“Dove hai imparato tutte queste cose?”, chiede Sordi-Melotti. Risposta: “Alla televisione”). Pura sociologia sordiana (il 1980 è anche l’anno di nascita di Canale 5).
AM: Era una dei copioni preferiti di Sonego, una storia molto americana, ma con “la semplicità di un’idea profonda ed elementare come quella di Pinocchio”. Sordi ci tirò fuori un film molto romano, unanimemente ritenuto orrendo, pieni di “spiegoni, con la paura di un mondo governato dalle macchine esorcizzata coi bucatini all’amatriciana. Malinconico fino alla lacrima, con questo finale disperato che è un manifesto della solitudine (e della pazzia registica) di Sordi. Film “spernacchiato e deriso in Italia”, diceva Sonego, ma accolto con grande interesse all’estero, dove c’erano meno pregiudizi su di lui. Però una misoginia in effetti incredibile, altro che “Via col vento” razzista. In una library Hbo riscritta nell’epoca del MeToo, “Io e Caterina” non sarebbe neanche rimosso, ma tenuto come monito e testimonianza del Male, tipo “Trionfo della volontà” di Leni Riefenstahl.
MM: “E’ assolutamente vero che il nostro cinema sia misogino”, diceva Sonego, con mea culpa pre-MeToo: “E il perché mi sembra evidente: a scrivere di cinema siamo quasi tutti uomini, e per di più, è anche vero che la maggioranza di noi è misogina”.
AM: “E cresciuta nei bordelli o col mito del bordello”, aggiungeva ancora Fellini (che sempre nel 1980 gira “La città delle donne”, altro caso politico, altro arrembaggio delle femministe).
MM Il villone di Sordi è la nostra Tara. Vicina peraltro al monumento “a Mussolini” che nei “Nuovi mostri” Sordi alias marchese Giovan Maria Catalan-Belmonte cerca in continuazione come punto di riferimento stradale scambiandolo con quello a Mazzini (al vicino Circo Massimo): ma lì, gli abbattitori saranno già arrivati? Si troveranno gravi colpe coloniali o sessuali mazziniane? Però quante ispirazioni, se fosse ancora vivo. Quanto gli piacerebbero l’Italia e il mondo 2020, e che film sgangherati potrebbe fare. Che personaggi. Per esempio: un bravo figlio che porta la mamma all’ospizio. Ma invece che “trattatela come una regina”, urlerà piuttosto: “Fatele il tampone!”. Che nelle Rsa, si è capito, il rischio è altissimo. E la nuora Patrizia, del resto, le ha già preparato il valigino: le vuole tanto bene, ma non ha tempo di accudirla: fa l’influencer, e deve correre a farsi un selfie al corteo “fuck racism”, con mascherina nera coordinata “I can’t breathe”, poi deve fare un post e tre story sponsorizzate e infine partire per Ostia.
AM: Siamo sempre lì. Ma lasciando da parte il cinema italiano, Sordi sarebbe stato un Joker pazzesco, meglio di Jack Nicholson e Joaquin Phoenix (così com’è stato un “Nerone” migliore di Peter Ustinov, proprio perché più matto). Restando invece sulla nostra commedia (ormai trasferita nella cronaca, fuori dal cinema), Sordi è quel tipo di italiano che non è affatto “medio”, casomai pazzo, e che prima della pensione esentasse in Portogallo, va in Turchia con l’aereo di gruppo a fare i trapianti di capelli, un altro dettaglio decisivo della drammaturgia sordiana.
MM: “I personaggi vanno disegnati a partire dai capelli”, lo diceva Mario Monicelli.
Si dice sempre “bravissimo e irresistibile l’attore”, poi si è messo in testa di diventare regista e non ha più fatto ridere. E’ vero, ma...
AM: E qui Sordi raggiunge la perfezione: dalla banana rockabilly del giovane scout cattolico di “Mamma mia, che impressione!” (puro Renzi) alla folta, lunga chioma ondulata à la De Michelis di “Tutti dentro” (puro Davigo), dalla capigliatura gramsciana del “Moralista”, con un Sordi matto e sgusciante come un’anguilla dalla prima scena all’ultima, fino alla fitta zazzera del fruttarolo che va alla Biennale di Venezia (“Le vacanze intelligenti”). In questa follia tricologica Sordi ha anticipato tutto il populismo globale, il riporto spaziale di Trump, la scapigliatura al vento di Boris Johnson. Oggi sarebbe anche uno splendido generale Pappalardo, compositore, carabiniere, artista matto, capopopolo col fischietto in bocca e la giacca arancione, alla guida di un manipolo di sciamannati che vogliono “stampare moneta!”. E non era forse Otello Celletti (“Il vigile”), felicemente disoccupato prima, integerrimo pubblico ufficiale poi, il prototipo del grillino anticasta? E quanto Sordi anche in Burioni, virologo della mutua, primario di Villa Celeste.
MM: Dove Villa Celeste è l’ospedale della Ferragni.
AM: Ve la meritate! Però il Sordi detestato dalla sinistra oggi si porta meno. Lo slogan morettiano, si capisce, era solo l’apice di una vasta e diffusa irritazione che partiva da lontano. Il fastidio per un attore e una commedia che per dieci anni almeno si sono mossi in perfetta sintonia con il pubblico, presi come in un sortilegio, in una possente catarsi nazionale e identitaria. Apriti cielo. Ecco per esempio, Goffredo Fofi: “La commedia all’italiana è una forma di neoqualunquismo, rappresentante di una borghesia tendenzialmente fascista”. I nostri attori comici, Sordi in testa, “corrompono il pubblico con la più pesante e sconcia delle operazioni commerciali e ideologiche, destinata a preparare il terreno a ogni tipo fascismo” (sempre Fofi “antifa”, che poi ha scritto anche un libro su Sordi). E poi ancora Pasolini, si sa, o Calvino, che trovava detestabile tutta la nostra commedia, film che “non mi fanno fare un passo avanti nella conoscenza di noi stessi”, diceva con la sua proverbiale “leggerezza calviniana”.
MM: Ma col monumento a Pasolini, anzi a Pier Paolo, come ci si deve regolare?, si chiederebbe Arbasino. Secondo cui la leggerezza calviniana, in un paese di pesantoni, sarebbe un grosso misunderstanding. “Pesante equivoco del nostro tempo”, con cui si presentano come leggeri i “calvinisti più grevi e plumbei”. Equivoco come quello del Sordi ignavo e immobilista. Cioè, lui lo poteva certamente essere, Dc tendenza Andreotti, però in tutti i film suoi, così come in molta della commedia all’Italiana, il comico e la risata scaturiscono proprio dal contrario dell’immobilismo. Arrivano invece da personaggi che, un po’ per ambizione un po’ per mitomania, vogliono migliorarsi, vogliono evolversi, salire di classe sociale.
Oggi sarebbe anche uno splendido generale Pappalardo, compositore, carabiniere, artista matto, capopopolo col fischietto
AM: Sordi può essere un mercante d’armi (“Finché c’è guerra c’è speranza”), di mobili (“In viaggio con papà”), un medico più o meno corrotto (“Il dott. Tersilli”), un giudice integerrimo (“Tutti dentro”) un giornalista idealista-incapace e mitomane (“Una vita difficile”), un venditore di stoffe e tappeti vicino Piazza di Spagna (“Scusi, lei è favorevole o contrario”), eccetera, ma tutto si può dire tranne che se ne stia con le mani in mano. Anzi, nei suoi film si agita sempre molto, desidera molto: soldi e successo e consumi. Quasi sempre questo gli costa altissimi prezzi, e più spesso ancora non otterrà alcun risultato, si torna allo status quo di prima, nello sberleffo generale. Non c’è nessun altro che lavora così tanto nel cinema italiano. Oggi invece ci sono solo disoccupati-tossici della periferia romana (il nostro western), o psicanalisti e architetti e scrittori in crisi, che comunque nel film non vedi mai lavorare, neanche in una scena (se li vedi lavorare, vuol dire che siamo a scuola, e il personaggio un insegnante precario in un “contesto difficile”).
MM: Ma certo, perché l’intellettuale comunque prende più sul serio e apprezza il proletariato che rimane dov’è, o il nobile o grande industriale che sono quello che sono, però che gran signori. Ciò che proprio non è tollerabile è il borghese che da piccolo piccolo vuole diventare medio o grande, e fa i soldi, pacchianamente. C’è subito puzza di neoliberismo.
AM: Così forse l’apice dei personaggi di Sordi resta il più mobile: Silvio Magnozzi, intellettuale di sinistra, ex partigiano, giornalista, scrittore, imprigionato per tentata insurrezione dopo l’attentato a Togliatti, poi lacchè di un commendatore potentissimo. E’ “Una vita difficile”, è la nostra vita; storia della Repubblica, dal referendum a casa dei marchesi Rustichelli al boom. E non è tanto la parabola trasformista, ma il fatto che questo Silvio Magnozzi ha la faccia di Sordi: la faccia di uno che nel film non crede mai fino in fondo a quello che dice, e questo lungi dall’essere un problema, rende il film sublime e credibile.
MM: La sera dopo la prima del film (siamo nel ’61), Sordi si ritrovò per caso a cena insieme a Togliatti. “Mi dispiace che lei non militi nel mio partito”, gli dice incredibilmente Togliatti; “io ne vorrei tre o quattro come lei”. E qui, in un altro grande equivoco tra il più grande comunista e l’attore più anticomunista della storia italiana, non si sa chi dei due fosse più pazzo.
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