La lezioni di cinema “al contrario” di Michelangelo Antonioni

Il 30 luglio del 2007 moriva a Roma il regista ferrarese. Fu un maestro in un'epoca di crisi e alienazione, magici grimaldelli che consentirono allora di promuovere a capolavori pellicole che non lo erano

Il 30 luglio del 2007 moriva Michelangelo Antonioni. Riproponiamo l'articolo pubblicato sul Foglio del 1 agosto 2007.

 


 

“Perdere un genitore è una disgrazia. Perderne due è sbadataggine”, faceva dire Oscar Wilde a una signora in “L’importanza di chiamarsi Ernesto”. Perdere un regista di culto cinefilo è una sciagura, salutata con parole di cocente rimpianto per quando il cinema zappettava le profondità dell’animo umano, infliggendo allo spettatore due orette di nobile martirio. Perdere due registi di culto cinefilo in due giorni costringe a ricominciare tutto da capo, fino a esaurimento degli aggettivi. I due giganti, come Scilla e Cariddi, presidiavano lo stesso territorio. Con più fantasia lo svedese, con maggiore determinazione punitiva l’italiano. Ma parliamo sempre di un cinema che mirava altissimo, più nelle intenzioni che nei risultati. Parliamo di film senza trama e senza finale, ragnatele di immagini purissime e sublimi, fisse sullo schermo fino all’esasperazione. Lo sberleffo di Kari Hotakainen al cinema di Bergman (in un divertente romanzo intitolato “Colpi al cuore”, dove immagina che Coppola abbia girato “Il padrino” nelle steppe finlandesi) vale altrettanto bene per Michelangelo Antonioni: “Chiacchiere tra il mare e la veranda, con primissimi piani di volti angosciati”.

 

Crisi e alienazione furono i magici grimaldelli che consentirono allora di promuovere a capolavori pellicole piene di nulla. Dove le donne erano appena un po’ meno spettinate che nel neorealismo, ma ugualmente sofferenti. Fa da campione, e da pilastro di poetica, la battuta ormai mitica pronunciata da Monica Vitti: “Mi fanno male i capelli”. In quell’esatto momento abbiamo capito l’esatto significato della frase: “Tra il sublime e il ridicolo c’è un solo passo”.

 

Pregiudizio durevole contro film in villa

Dobbiamo a Michelangelo Antonioni parecchie lezioni di cinema. Al contrario. Abbiamo guardato “La notte” ricavandone un fondato pregiudizio contro i film con le ville zeppe di intellettuali con il bicchiere in mano (circondavano il finto scrittore Marcello Mastroianni i veri Umberto Eco, Ottiero Ottieri, Salvatore Quasimodo, Valentino Bompiani). Siamo usciti da “Deserto rosso” giurando che un film di cui tutti celebrano la fotografia non l’avremmo visto più, se non sotto tortura. Abbiamo guardato “Professione reporter” per rinvigorire il nostro odio contro i piani sequenza. Dopo “Blow up” abbiamo capito che una macchina fotografica in scena porta guai, sotto forma di riflessioni sul mezzo. Dopo “Zabriskie Point”, con finale esplosivo e musica dei Pink Floyd, abbiamo capito quale potente cosmetico sia la colonna sonora.

 

E gli dobbiamo, di sponda, una dritta sul mestiere del critico. Dopo la proiezione per la stampa di “Eros”, condiviso con Wong Kar-Wai e Steven Soderbergh, la frase sulla bocca di tutti era: “Oddio, che brutto l’episodio del maestro…”. Poi la notte portò consiglio, e nelle recensioni la parola più fredda era “capolavoro”.

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