Le aspettative dei genitori riversate sui figli. Parla Silvio Orlando
L'attore è tornato con Daniele Luchetti in Lacci. "Lui non invecchia, ringiovanisce come Benjamin Button. E nel suo modo di dirigere, ho riscoperto una certa purezza e una certa autenticità"
Silvio Orlando parla di spettacoli teatrali come di grandi avventure, e della meraviglia di ogni giorno come della quotidianità della vita. Vede occasioni dove altri vedono solo porte chiuse, e ha la capacità dei grandi attori di rendere ogni storia, anche la più piccola, incredibile. Lo ascolti come si ascolta un amico tornato da un lungo viaggio: con lo stesso rapimento e la stessa curiosità.
Di Domenico Starnone, con il quale ha lavorato spesso, dice: “È uno dei pochi intellettuali simpatici; ha un senso dell’umorismo straordinario, è un seduttore, e ha una cultura immensa, che non è mai un ostacolo”. Dello spettacolo teatrale di Lacci ricorda il suo lunghissimo monologo, l’appassionata confessione al vicino, e del film di Daniele Luchetti, dall’1 ottobre al cinema, una storia di rimpianti, tradimenti, di figli e di genitori, ma soprattutto di mariti e mogli, parla come di un’occasione per tornare a collaborare. “Anche se il mio ruolo, qui, è piuttosto compresso”.
Sono passati venticinque anni da “La Scuola” di Luchetti.
“Sono tanti, ma non sono passati invano. Per un po’, io e Daniele ci siamo persi di vista: ognuno aveva le sue cose da fare, la sua vita da vivere, e le incomprensioni, a volte, non sono mancate. Però, poi, ci siamo ritrovati”.
E che cosa ha pensato?
“Che Luchetti non invecchia, ringiovanisce come Benjamin Button. E nel suo modo di dirigere, ho riscoperto una certa purezza e una certa autenticità. Daniele sta lì: pronto a cogliere sfumature, a rubare, a catturare. Fregandosene dei tecnicismi, e mettendo al primo posto il lavoro e l’intensità degli attori. Ha uno stile molto audace”.
In Lacci divide la scena con Laura Morante e viene naturale pensare a Ferie d’agosto di Paolo Virzì.
“Quei personaggi, anche in chiave tragica, restano più o meno gli stessi. In Ferie d’agosto, la moglie era un po’ soggiogata dalla cultura e dalle cose che sapeva il marito, e il marito era un ometto con un’autostima molto bassa. In Lacci, lei si è resa conto del tempo sprecato e riconosce tutte le colpe di lui: tante belle promesse mai mantenute”.
Il suo Molino, uomo di sinistra e giornalista, resta uno dei ritratti più efficaci degli intellettuali italiani.
“C’è questa frase di Flaiano che più o meno dice: gli attori italiani sono molto bravi nell’interpretare santi, poliziotti e truffatori, ma non riescono quasi mai a interpretare gli intellettuali”.
Secondo lei perché?
“Perché l’intellettuale italiano non ha mai impressionato le persone, non le ha mai colpite, non si è mai fatto notare, non veramente: è uno che si nasconde e che spesso risulta anche antipatico”.
Ferie d’agosto, però, è diventato un tormentone: è entrato nella nostra lingua e nel nostro immaginario.
“Paolo è riuscito a dire tantissime cose in un’ora e mezza di film. È stato una spugna. E quello era il suo secondo lungometraggio. Me lo ricordo come un vulcano: sempre sul punto di esplodere, di fare, di inserire. Ferie d’agosto era un film nervoso, totalmente libero, con dei dialoghi pazzeschi e ambientato in un momento particolare della nostra storia: la sinistra sembrava prossima al successo, e invece arrivò il berlusconismo”.
La sequenza della cena a casa dei Molino ricorda un po’ certi talk di oggi.
“Ci si urla addosso, senza però dirsi niente di concreto. Ci si sfida a colpi di slogan, e si ripetono finché la discussione va avanti, inamovibili e sempre uguali. Sottintendendo l’incapacità dell’altro di ascoltare e di capire”.
Anche La Scuola è riuscita a fotografare la realtà.
“Nel film c’era un’unione e una confusione degli opposti. C’erano classi di studenti dove potevi trovare chiunque e dove tutti imparavano da tutti. Sui libri, certo, ma anche con gli schiaffi. Oggi, invece, il destino di chi – faccio un esempio – è figlio di un avvocato e quello di chi è figlio di un disoccupato sono nettamente separati e probabilmente non si toccheranno mai”.
Il suo professor Vivaldi diceva: “La scuola italiana funziona solo con chi ne ha bisogno”. Oggi è ancora così?
“Non avendo figli non lo so. Mi limito ad ascoltare i racconti dei conoscenti, e alla mia esperienza. Proprio a ridosso dell’ennesima riforma sull’istruzione, quella del governo Renzi, rimisi mano allo spettacolo teatrale. E ricordo che durante i dibattiti che spesso seguivano le repliche gli insegnanti erano disperati e avviliti”.
Perché?
“Per i genitori che delegittimano il loro lavoro, che lo mettono costantemente in discussione, perché non accettano l’idea di un figlio non portato per lo studio. E seguono liti, risse, ricorsi al TAR”.
C’è una mancanza di fiducia nei ruoli?
“I genitori non riescono a capacitarsi. Non vogliono ammettere la realtà. Insistono, perché nei figli riversano tutte le loro aspettative, tutto quello che volevano essere e non sono mai stati. Insistono, perché non sono disposti ad ammettere i loro limiti, non quelli dei figli”.
Che cosa condividono il mestiere dell’attore e quello del maestro?
“Entrambi hanno a che fare con la politica, e non mi riferisco alla politica da campagna elettorale, dei partiti, alla politica fatta solo di ideologie. Sono due mestieri che lavorano con l’informazione, con la consapevolezza e con le persone. Vogliono far scattare una scintilla. Ispirare qualcosa negli altri”.
Cosa?
“Come attori, bisogna anche avere una certa prospettiva, e provare a coltivare l’ambizione di toccare le persone, magari addirittura di cambiarle: anche se per poco, anche se solo per la durata di uno spettacolo”.
Lei fa poesia, come direbbe il preside Villani.
“La poesia è in via d’estinzione. I poeti sono come i panda. Nessuno, oggi, pensa di poter vivere con la poesia: nessuno sogna più di finire in quello scaffale delle librerie Feltrinelli, quello sempre un po’ defilato, sempre identico. Per fortuna, però, esiste anche un altro tipo di poesia”.
Quale?
“Quella che passa attraverso altre cose. E in un film può essere un incidente: quando succede una cosa senza la minima aspettativa. Quella poesia arriva quando sei vero, quando sei sincero, quando vai fino in fondo”.
Essere veri mentre si fa finta di essere qualcun altro: è una contraddizione.
“Vengo da Napoli, che è una città che ama molto la rappresentazione ma poco la finzione. Fin da bambini, si impara a misurare toni e gesti. E l’importante, questa verità di cui le dicevo prima, è essere connessi con sé stessi, con la propria anima”.
Cosa manca, oggi, in Italia?
“La satira sociale. Eppure è quello che ha fatto grande il nostro cinema, la nostra arte. È sempre stato il nostro genere: quello che sapevamo fare”.
E perché non si fa più?
“Ora c’è questo complesso degli autori che se non fanno cose tragiche non rimangono, che se inducono alla risata vengono presi sottogamba. E quindi, per entrare nel salotto buono della cultura, diventano arcigni e serissimi”.
Ma c’è veramente la libertà di dire qualsiasi cosa? Non siamo asfissiati dal politicamente corretto?
“Il discorso è molto semplice. È come quando Mario Draghi dice che c’è il debito che produce ricchezza e il debito che produce parassitismo. C’è il politicamente corretto buono, e c’è il politicamente corretto non buono. Quando diventa demenziale, eccessivo, diventa inutile e nocivo”.
A volte non si esagera?
“L’unica cosa che mi preoccupa sono gli eccessi insensati, efferati, di crudeltà. La mancanza di empatia. Per il resto, se devo dirle la verità, mi pare si tratti di un falso problema: perché se sei sincero, se parli degli esseri umani per quello che sono, non c’è nessuna questione, nessuna crisi”.
Qual è la lezione più importante che lei ha imparato?
“Saper coltivare la giusta invidia. Una cosa di cui, praticamente, non si parla più. Anche qui: c’è l’invidia buona, che serve, e c’è l’invidia cattiva, che andrebbe evitata. E anche l’invidia, a modo suo, può fare del bene”.
In che modo?
“Ti spinge a non fermarti. E non fermarsi è fondamentale. Le cose non finiscono mai, non veramente. C’è sempre qualcosa da fare. La vita ti sorprende in continuazione. Pensi a quello che mi è successo dopo la collaborazione con Paolo Sorrentino: un big bang, in tutti i sensi. E chi se lo aspettava”.
Nessun rimpianto?
“Nella mia vita, ho fatto tantissime cose, tante diverse, a volte anche in contrasto. Non bisogna ragionare con la testa degli altri, ma con la propria testa: anche questo è importante ricordarselo”.
È il napoletano che è dentro di lei a parlare?
“Non lo so. Napoli è circondata dal Golfo, e nel suo mare ci si ferma, ci si immobilizza. E si rischia di perdere un po’ di prospettiva sulle cose, e ci si accontenta. Ci si accontenta molto. E invece non ci si deve mai accontentare”.
Politicamente corretto e panettone