Minority report
La condanna del New Yorker ai film poco impegnati e poco ideologici
Quando l’evasione diventa inaccettabile ai conformisti, chiusi in un discorso autoreferenziale
Sul New Yorker, mensile di cultura popolarissimo tra le élite, Richard Brody, critico cinematografico, suggerisce 36 film del 2020 da vedere. Introducendo la lista, Brody lamenta il fatto che, sebbene siano belli e impegnati, i film dell’anno non sono stati capaci “di drammatizzare le connessioni tra vita privata e situazione politica, vita interiore e potere pubblico”. Secondo Brody, non sono riusciti a “fare la differenza”, cioè a cambiare la vita sociale, perché ancora troppo legati a criteri formali di unità, storia e archi drammatici. Se non avessi visto con i miei occhi che si trattava del New Yorker della fine del 2020, avrei pensato di leggere una articolo sulla Pravda degli anni 30 e 40 del secolo scorso, quando Stalin folgorava il cosiddetto “formalismo” di Šostakovicč per gli stessi motivi: mancanza di realismo sociale e di dialettica politica.
L’autocrate voleva forme vecchie e Brody forme nuove, ma le accuse sono curiosamente simili. Inutile dire che la lista dei 36 film di Brody è coerente con la sua impostazione: quindici film trattano di storie di emancipazione femminile, undici hanno protagonisti afroamericani o africani, quattro si occupano di storia politica recente condannando la destra (qui si trova il documentario di Nanni Moretti sul Cile di Pinochet), due riguardano la mancanza di privacy, due problemi psichici, uno si occupa di omosessualità. Ne rimangono fuori un paio, uno sul grande Gatsby e un altro sull’invecchiamento degli artisti, ma si chiama comunque “Building the wall!”, il famoso slogan di Trump, per non sfigurare. Impegnati, anzi impegnatissimi. Eppure, secondo Brody, non è abbastanza.
Manca ancora uno stravolgimento del canone narrativo, in modo tale che l’impegno si veda di più. Ricorda Nietzsche che diceva che non si è ancora ucciso Dio perché non si è ancora stravolta la grammatica. Così oltre che avere migliaia di film con i medesimi temi, non riusciremo neanche a seguirne lo svolgimento. Purtroppo è la vicenda di tutte le ideologie, e quelle nuove del mondo liberal americano non sono da meno delle altre. Le ideologie non sopportano il senso comune – il buonsenso manzoniano – perché sono chiuse in un discorso autoreferenziale. Tutto sembra loro un’evasione dall’impegno e nessun compagno di cammino abbastanza radicale. Eppure, diceva Tolkien accusato di scrivere letteratura evasiva, diremo che è poco realista uno che si trova prigioniero in un paese straniero e ostile e vuole evadere per tornare a casa?
Alle volte, evadere significa tornare a vedere la realtà nella sua dimensione ideale, nella sua bellezza che vorremmo, nella sua giustizia che qui sfugge e trovare lì il coraggio per lottare. Alle volte, evadere significa essere estremamente realisti. Si capisce il desiderio del New Yorker di recuperare la dimensione politica messa in discussione dal nichilismo postmoderno della fine del secolo scorso e dall’individualismo estremo di quest’epoca di ceo capitalism. Ma anche la fiaba, la magia, il lieto fine possono avere una dimensione politica. Quello che qui si vuole è qualcosa di diverso dalla dimensione politica. E’ l’ideologia, organizzazione sistematica e totalizzante di punti di vista ed esigenze che sono giuste se prese e inserite in un contesto, ma che divengono mostruose quando sono isolate ed erette a criterio di giudizio e a obbligo di forma. Ciò che era nato come contestazione diventa conformismo. Ciò che era trasgressione diventa standard etico, imposto a forza di regole e di pressione sociale. E presto, come Brody suggerisce, la rottura della forma diventerà una forma della rottura (anche della pazienza dello spettatore). Già alla fine della lista del New Yorker di quest’anno viene da implorare che arrivi il 2021 e che, con le grandi sale, tornino i supereroi, purché non ci facciano anche loro la predica.