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Awards in letargo, il cinema prende la rincorsa
Da Cannes agli Oscar, il posticipo dei main events è l'occasione per ripensarli: "Il Dolby Theater è più un bazar che un tempio", scrive A. O. Scott
E’ ufficiale, il festival di Cannes scivola un paio di mesi avanti. Era a maggio, comincerà il 6 luglio e finirà il 17. L’industria applaude – il Marché è uno dei più importanti al mondo, per comprare e vendere o firmare accordi di coproduzione, e consentire affari con gli outsider che arrivano sconosciuti e ripartono famosi, a volte anche premiati. Se uno ha il fiuto e l’accortezza di comprarli prima che si sparga la voce può fare ottimi affari (dopo, son buoni tutti e i prezzi vanno alle stelle). Sono cose che su Zoom vengono male, si parla di Zoom-fatigue, e si spera che per luglio le sale – dita incrociate – saranno riaperte: più di un distributore dice di avere titoli già comprati e pronti per uscire, quando sarà.
Slittano anche gli Oscar, al 25 aprile (l’anno scorso erano il 9 febbraio, trionfò il coreano “Parasite”, già Palma d’oro a Cannes – sì, sembra un secolo fa, dev’essere la noia). Un articolo di A. O. Scott sul New York Times invoca cambiamenti radicali, a partire proprio dalla vittoria di Bong Joon-ho, che ha smantellato – per cominciare – il muro che separa i film americani dai film stranieri (scelti, commenta perfidamente, da funzionari governativi, gente che di cinema non capisce granché). A illustrare l’articolo, una statuetta di zio Oscar con i segni perché il chirurgo possa affondare il bisturi per il lifting.
Quasi tutto è cambiato, nel fatale anno bisestile (per la gioia maligna di chi ci crede) e dovranno cambiare anche gli Oscar. Sono usciti pochi film del genere che entusiasmano i giurati: medio budget, drammatici, meglio se con nomi di richiamo e un solido contesto storico. Non c’è stato niente di quel che solitamente precede la manifestazione: voci sui favoriti, distruzione dei medesimi che partiti vincitori arrivano spompati alla cerimonia, passaparola assortiti. Quindi non sappiamo bene cosa aspettarci. A parte qualcosa di nero (“One Night in Miami” di Regina King), qualcosa di vecchio (ci vorrà scusare Frances McDormand di “Nomadland”, ma non è la prima volta che gareggia), e qualcosa di nuovo (Vanessa Kirby in “Pieces of Woman”).
“Non sprechiamo questa crisi”, scrive A. O. Scott. Gli Oscar erano un pasticcio, offrivano poche e saltuarie soddisfazioni: un bel passo avanti con “Moonlight” (dopo che era stato annunciato per sbaglio “La La Land”) e un passo indietro con “Green Book”. Quasi d’accordo, tranne su “Moonlight” che non reggerà l’insulto del tempo. Era stata introdotta la categoria “film popolare”, ritirata con ignominia dopo la protesta dei “non popolari”. Tanto popolare non è più neanche la cerimonia, a dispetto dei continui aggiustamenti. Con le nuove suscettibilità nessun comico ci vuole mettere la faccia. La soluzione? Più commercio, scrive A. O. Scott: “Smettiamola di pensare al Dolby Theater come un tempio, e cominciamo a considerarlo un bazar”.
Politicamente corretto e panettone