Quante piccole cose di pessimo gusto alla cerimonia dei Golden Globe
Lampade orrende e pigiami. Cercasi disperatamente giornalista nero
Vista la cerimonia dei Golden Globe tocca aggiornare le piccole cose di pessimo gusto – siccome Guido Gozzano non c’è più, facciamo da supplenti. Dai fiori in cornice (nella Torino di metà Ottocento andava forte anche il conchigliame) al camino in pietroni irregolari che troneggiava dietro Pete Docter: il regista di “Soul”, film elegante e di ottimo gusto premiato per l’animazione E’ spuntato, in un pessimo collegamento tipo acquario, anche il co-regista Kemp Powers, che qualche volta appare e qualche volta no. Qui l’hanno tirato fuori per tamponare le falle, mica solo il Pd dimentica che viviamo nell’èra dell’inclusione. Stavano già montando i palcoscenici, uno a Los Angeles per Amy Poehler e uno a New York per Tina Fey (poi abilmente riuniti con lo split screen) che è arrivata la bomba. Tra i membri dell’Associazione Stampa Estera di Hollywood, un centinaio circa, non si era trovato un solo giornalista nero. Momentaccio. Per rimediare, durante la monotona nottata hanno fatto battute, si sono scusati con aria compunta, hanno giurato “mai più” Dietro alle star riprese in remoto, c’erano – o sembravano – cucine di residence.
Abbiamo visto fiori striminziti nel vaso in ceramica sull’angoliera, e tremende lampade da tavolo con la frangetta. Solo Donald Sutherland aveva alle spalle una casa decente (e non era la scenografia di “The Undoing”). Qualche congiunto smanettava con il cellulare, altri entravano nell’inquadratura stile photobombing. Jodie Foster e la consorte si erano già messe il pigiamino. Bill Murray, in camicia a fiori e cocktail Martini, cercava disperatamente di alzare il livello. Il red carpet? Virtuale (e schizofrenico): via le ciabatte, a nanna il cane, finalmente le luci giuste e l’abito buono, per la foto con coscia e tette in vista. Tranne Jane Fonda, che per ricevere il premio Cecil B. De Mille alla lunghissima carriera è salita sul palco con un tailleur bianco. Suo e già indossato, ha fatto sapere. Così funzionano le cerimonie, in tempi di pandemia. Per accorciare la distanza tra noi e loro, l’audio del primo premiato – Daniel Kaluuya, migliore attore per il film sulle Pantere Nere “Judas and the Black Messiah” – era desolatamente muto.
Non serviva la sfera di cristallo per i premi. “Nomadland” di Chloe Zhao è dato vincitore – non solo del Golden Globe categoria “dramma”, ma dell’Oscar – fin dalla Mostra di Venezia, dove aveva vinto il Leone d’oro. Ha vinto il film e ha vinto la regista sino-americana (con un debole per gli indiani Dakota): si era fatta le treccine per l’occasione. Racconta i poveri che vivono nei camper, spostandosi di lavoro sottopagato in lavoro sottopagato. C’è Frances McDormand in salopette. C’è un tramonto quasi eterno su maestosi paesaggi e la colonna sonora di Ludovico Einaudi. Non vinceva una donna dal 1984. Ma c’erano altre due registe in gara, Regina King e Emerald Fennell: entrambe dotate di un più spiccato senso per lo spettacolo. “Borat 2” ha vinto come film comico, Sacha Baron Cohen ha fatto il bis come attore. “The Crown” e “La regina degli scacchi” sono state premiate nelle categorie serie e miniserie tv. Ammesso che la distinzione abbia ancora senso. La maggior parte dei film in gara l’abbiamo vista – e gli altri li vedremo – in streaming.
Politicamente corretto e panettone