A “Mank” 10 nomination agli Oscar, con tanti cari saluti a inclusione e parità di genere

Mariarosa Mancuso

A fare incetta di candidature è un film riuscito, colto, essenzialmente maschile. E pure in bianco e nero

Il “demone della perversità” – che secondo Edgar Allan Poe spinge a fare e a dire proprio quel che non si dovrebbe fare o dire – esiste. E vale per le candidature agli Oscar. Mesi a parlare di inclusione: più donne, più neri, più asiatici, più trans, e guai ai ruoli che vengono assegnati ad attori non in linea con il ruolo – insomma, a gente che recita. Risultato: il film che colleziona più candidature è “Mank”. A parte il regista David Fincher, e gli attori, un gran bel film di maschi, bianchi e morti – come usava dire quando Shakespeare veniva cancellato per fare posto alle minoranze. Racconta i retroscena di “Quarto potere”, film di Orson Welles scritto da Herman J. Mankiewicz. Con gran contorno di storici produttori, negli anni d’oro di Hollywood. Lo ha scritto Jack Fincher, defunto padre di David. Donne, poche e decorative. Altre categorie da promuovere: non pervenute. Bellissimo, coltissimo, in bianco e nero: roba che solo Netflix può permettersi di produrre. Certo non urgente, e contemporaneo soltanto per le dispute che sempre oppongono registi e sceneggiatori. Vista la carriera successiva di Orson Welles, lo sceneggiatore aveva contribuito parecchio al capolavoro.

 

Proclamato quel che non si poteva neanche sussurrare (la cerimonia di premiazione si terrà quest’anno il 25 aprile, con quali precauzioni sanitarie ancora non si sa) seguono sei film con sei candidature ciascuno. “Il processo ai Chicago 7” di Aaron Sorkin; “Sound of Metal” di Darius Marder; “Minari” di Lee Isaac Chung (nato a Denver da genitori coreani); “Judas and the Black Messiah” di Shaka King (storia delle Pantere nere), “The Father” di Florian Zeller (demenza senile). Qualcuno già visto sulle piattaforme streaming e qualcuno no (ne abbiamo tante, ma non Hulu). Cinque, per chiudere la sestina manca la donna sola al comando: Chloé Zhang con “Nomadland”, vincitore del Leone d’oro alla mostra di Venezia (da allora andiamo dicendo che acchiapperà pure l’Oscar). Al Golden Globe (vinto pure questo) la regista sino-americana con una passione per gli indiani Dakota e i poveri che vivono nei camper rincorrendo i lavori stagionali – questo sì che è contemporaneo! – aveva due rivali: Emerald Fennell con “Promising Young Woman” e Regina King con “Una notte a Miami”. La prima è candidata anche agli Oscar, con la sua storia di vendetta in tacchi a spillo: Carey Mulligan va nei locali e fingendosi ubriaca marcia, c’è sempre un giovanotto che se la porta a casa con cattive intenzioni (lei sa come difendersi, anche a costo di una macchia di sangue sulla camicetta). La seconda si è persa per strada, con il suo film all black: Martin Luther King e Cassius Clay discutono sull’empowerment dei fratelli neri. Donne e sigarette, non pervenute: assai strano, per una serata di festeggiamenti tra maschi neri degli anni 60.

 

Due donne alla regia sono uno storico record. Quando Kathryn Bigelow vinse due Oscar per “The Hurt Locker” era l’unica candidata. E non fu neppure festeggiata a dovere, era un film di guerra, suvvia, mica vogliamo comportarci da maschi. Altro record: nove attori non bianchi. Riz Ahmed – batterista che perde l’udito in “Sound of Metal” – è pure musulmano, hanno fatto notare prima del doveroso applauso alla bravura. Chadwick Boseman sicuramente vincerà l’Oscar postumo, dopo il Golden Globe. Tra le attrici protagoniste, la gara si restringe a Frances McDormand per “Nomadland” e Carey Mulligan vendicatrice in “Promising Young Woman”. Per le non protagoniste, tutti scommettono su Glenn Close in “Elegia americana” di Ron Howard: una recitazione sopra le righe in un film scombinato (però con i bianchi poveri). Facciamo il tifo per Amanda Seyfried in “Mank”. Ruolo: la pupa del capo.

 

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