l'intoccabile
Benigni avrà il Leone d'oro alla carriera. Già partita la retorica cultural/patriottica
Non si chiede a un comico di essere simpatico, basta che sia bravo. Si può chiedere agli ammiratori del comico di essere un po’ meno autarchici nelle loro celebrazioni. L'audio-commento
Capitano momenti in cui vorremmo essere altrove. Quando annunciano che Roberto Benigni avrà alla Mostra di Venezia il Leone d’oro alla carriera, e si scatena l’arte tutta italiana della retorica cultural/patriottica. I libri si leggono poco, i musei si frequentano anche meno, ma basta pronunciare il nome di Leonardo o di Dante per provocare un minuto almeno di silenzio con gli occhi bassi. Non è solo segno di rispetto. Serve più che altro per non incrociare l’occhio del professore che potrebbe far due domandine al volo, tanto per accertare le basi. Qualche giorno fa, per via del maledetto vizio di dichiarare immantinente guerra agli infedeli, stava per scoppiare una rissa con un giornalista tedesco, reo di aver detto due parole a favore di Shakespeare. Nascondete a costoro il saggio che Harold Bloom ha dedicato al vecchio Willie, “L’invenzione dell’uomo” (se non fosse morto, gli italiani lo fucilerebbero).
Già di culto per via di quel “Robertoooooo” urlato da Sophia Loren quando vinse due Oscar per “La vita è bella”, Roberto Benigni va in giro oggi tra Dante Alighieri e Sergio Mattarella. Una decina di anni fa, mise di mezzo anche “la Costituzione più bella del mondo”, da spiegare al popolo con un programma televisivo. Un talento intoccabile, al di là di ogni critica (se ti annoi, sei un povero di spirito). Pensare che una volta gli attori venivano sepolti in terra sconsacrata. Da qualche decennio viene applaudito qualsiasi cosa faccia, compresa la regia di un “Pinocchio” dove aveva scelto per sé la parte del burattino di legno.
Quando sei intoccabile, e hai fatto piangere con “La vita è bella”, nessuno osa suggerire che “il cinema non è il teatro, dove Ferruccio Soleri ha fatto le capriole di Arlecchino fino a quasi 90 anni”. Ora Matteo Garrone l’ha reso chiaro a tutti dando a Benigni nel suo “Pinocchio” la parte di Geppetto. E facendolo recitare entro precisi limiti, escluse le macchiette.
Parentesi necessaria: non fu proprio proprio tutto il mondo, a commuoversi per papà e figlio in campo di concentramento. Art Spiegelman che disegnò il fumetto “Maus” mise tutta la sua contrarietà in una vignetta. Siamo talmente indietro, nella comicità – teoria e pratica – da credere che la parlata toscana faccia ridere sempre e comunque. Figuriamo se non sfugge la tradizione del witz ebraico, umorismo più intonato alle circostanze.
E di quell’assalto a Raffaellà Carrà, accompagnato dall’elenco della parole che indicano il “rosebud” (bocciolo di rosa, se avete visto “Mank” sapete che la slitta c’entra poco) cosa vogliamo dire? Chiedo per un’amica sensibile, di nostro siamo piuttosto libertari, tendenza Pietro Castellitto: se qualcuno ti mette la mano sulla coscia o sposti la mano o sposti la coscia. Oppure pregusti il momento in cui lo racconterai ai nipotini, come Elle Fanning concupita dal suo attore preferito in “Un giorno di pioggia” a New York di Woody Allen. Il duetto del 1991 con Raffaella Carrà cominciò con “bella chiappa”, e sollevamento della soubrette tipo maschio primitivo della barzellette, per proseguire con un numero su “quel che nelle donne attira tanto gli uomini”. Chiamata “patonza” e “crepaccia” e “gnacchera”, in attesa di uno sventra-papere. Numero esilarante, ma per carità non fatelo vedere tanto in giro.
Non si chiede a un comico di essere simpatico, basta che sia bravo. Si può chiedere agli ammiratori del comico – avviato sulla via del Maestro da Venerare, tra un po’ anche comico gli sembrerà un’offesa – di essere un po’ meno autarchici nelle loro celebrazioni. Gli avremmo dato l’Oscar per il critico che gioca con la lampada in “L’altra domenica” di Renzo Arbore. Le performance poetiche sono meno avvincenti.