La tigre bianca, le contraddizioni dell'India contemporanea
Il film del regista Ramin Bahrani è una non-parabola ricca di metafore crude, ambientata in un sistema feudale ancora in vita nell'India del 21esimo Secolo, candidato alla miglior sceneggiatura agli Oscar
"Vorrei romperle in due il cranio e rubarle tutti i suoi soldi, Sir", ammette con fare candido l’autista-servo Balram al suo giovane capo Ashok, che nella distrazione nemmeno lo sta a sentire. Eppure l’aveva avvisato. La tigre bianca, il thriller di Netflix, scritto da Bahrani e basato sul romanzo di Adiga del 2008, vincitore del Booker Prize, segue l’ascesa di un giovane – di grandi speranze e scarsi mezzi – tra i ranghi del sistema di caste dell’India per raggiungere la propria libertà.
Il film non è condiscendente nei confronti del pubblico, scherza ma non ride, e trova nel rifuggire i messaggi specifici la sua chiave. Come nei romanzi complessi, ha la mirabile capacità di far empatizzare con eroi “ambigui”. Non con il classico eroe buono, ma con uno molto più sfaccettato ed estremo, che prende parte a una narrazione in un certo senso “machiavellica”, che per sua stessa natura fa un salto a piè pari oltre le leggi della morale.
Il sorriso del giovane Balram è un sorriso vuoto, ripetitivo, quasi un tic svuotato del proprio significato, un sorriso che si è fatto abitudine professionale, come quello che raccontava David Foster Wallace in Una cosa divertente che non farò mai più. È un riflesso, mantenuto mentre il servitore si chiede se in realtà odia il suo padrone, e mentre decide anche se un giorno potrebbe in qualche modo diventare lui il padrone stesso.
La Tigre Bianca si regge sul simbolismo. Il pollaio e l’animale esotico che dà il titolo all’opera quali metafore contrapposte. Balram, nelle sue parole di narratore, afferma che la stragrande maggioranza dei poveri dell’India sono come i polli al macello. Sanno di essere i prossimi a cui toccherà, ma non considerano mai la fuga o il mutamento di questa condizione come opzioni sul piatto. Ma c’è anche la tigre bianca, una animale esotico e raro che Balram vede una volta allo zoo. "Una bestia nata solo una volta in una generazione" e destinata a liberarsi dal suo recinto, a uscire dalla condizione che le è stata imposta.
Durante le scuole elementari, la famiglia del protagonista – dopo la morte del padre per tubercolosi – lo costringe a rinunciare alla sua borsa di studio per una prestigiosa scuola di Delhi, per farlo invece lavorare in un negozio di tè per pochi centesimi. Una prospettiva per loro molto più reale e sicura. La sua responsabilità e il suo posto nel mondo servono solo a guadagnare per l’avida e arcigna vecchia nonna, matriarca incontrastata di quel disordinato nucleo. Anche quando gli viene offerta la possibilità di uscirne, la sua famiglia si rassegna al pollaio.
Nonostante siano una nazione incredibilmente diversificata di oltre 1,3 miliardi di persone, i film ambientati in India, probabilmente anche grazie all’influenza di Bollywood e a pellicole come Slumdog Millionaire, portano ancora con loro tutta una serie di aspettative specifiche. Colori vividi, action tamarre, musica di un certo tipo, e un vago quanto ingenuo alone di ottimismo a speziare il tutto. In White Tiger, Bahrani gioca proprio su quelle aspettative, ribaltandole, per offrire qualcosa di completamente diverso.
Uno stato che è il regno delle contraddizioni, dove persino l’eroina dei poveri, una funzionaria eletta soprannominata e venerata come “The Great Socialist” estorce regolarmente grosse tangenti a ricchi uomini d’affari per deregolamentare il mercato per loro. Emerge una critica acuta dei politici indiani che reclamizzano il socialismo per ottenere voti dai poveri, salvo poi incrementare il divario di ricchezza a vantaggio personale una volta eletti.
Nonostante sia un bambino prodigio, le aspettative vengono sovvertite fin da subito, questa non è una storia sui fortunati, le eccezioni che continuano a prosperare seguendo le regole. La storia di Balram è una non-parabola ambientata in un sistema feudale ancora in vita nell’India del 21esimo Secolo. Alla fine sembra rendersene conto anche lui con ironia sottile quando con uno schiocco di dita convoca tutti gli impiegati della sua azienda a rapporto per una comunicazione importante. Un discorso che si fa meta-cinema, mentre guarda in macchina e ragiona sulla pellicola stessa: "Ora, che cosa succede di solito nei film indiani che contengono un omicidio?" Chiede ai suoi dipendenti, che lo ascoltano devoti. "Il povero uccide il ricco, e comincia ad avere incubi su di lui. Nella realtà capita il contrario. L’incubo diventa che non l’hai fatto, che non ci sei riuscito, che sei ancora lì a vivere come un servo. Ma poi ti svegli, smetti di sudare, il battito rallenta, è tutto reale, ce l’hai fatta, sei uscito dal pollaio".
Politicamente corretto e panettone