Oscar di inclusione e distanziamento. Parlando di film, non è andata granché
Niente tappeto rosso e nemmeno il tradizionale Dolby Theatre: ha vinto “Nomadland” di Chloé Zhao, premiata anche come miglior regista. Ma speriamo sia una svista: una serata che il mondo del cinema non ricorderà troppo a lungo
Lezioncina sull’inclusione. Ammonimento a vivere con meno. Certezza che al mondo esistono tante persone buone. Accorata preoccupazione delle star per la sorte dei propri figli neri, incontrassero mai di notte un poliziotto. Laura Dern – gonna di piume bianche e giacchetta nera – inforca gli occhiali e legge: “Non si può assassinare la libertà”. Daniel Kaluuya – è inglese, può permetterselo – celebra Fred Hampton delle Pantere Nere (quelle degli anni 60 del Novecento, mica “Wakanda forever”): fu ammazzato dall’Fbi, temevano diventasse il Messia dei neri americani, ebbe il suo giuda. Premiato come non protagonista, l’attore sfoggiava una collana di diamanti Cartier.
Erano gli Oscar 2021, ripensati per evitare alle star contatti e contagi (una bionda epidemiologa, non si sfugge, ha ricordato ai comuni mortali di vaccinarsi). Eliminato il tappeto rosso, abbandonato il tradizionale Dolby Theatre, i candidati sono stati distribuiti in comodi divanetti separati, con tavolini e lampade – mancavano i telefoni in stile “Cabaret”, per chiamarsi da un tavolo all’altro. Tutto ricostruito per l’occasione alla Union Station di Los Angeles, sotto la regia di Steven Soderbergh. Non s’è fatto vedere mai, ma ha scelto anche i divanetti per un po’ di chiacchiere prima della cerimonia (sullo sfondo, qualche mascherina) e ha fatto cantare prima dello show le cinque canzoni candidate, che toglievano ritmo allo spettacolo.
Parlando di cinema, non siamo messi bene. Miglior film “Nomadland” di Chloé Zhao, che ha vinto anche come regista (doppietta finora messa a segno soltanto da Kathryn Bigelow con “The Hurt Locker”, altra tempra). Speriamo sia una svista, agli Oscar ne succedono, e non del modello cinematografico per gli anni a venire. Riassumiamo per chi lo vedrà dal 29 aprile nelle sale aperte (a trovarle, sul Corriere di Milano oggi non c’erano cenni sulle sale funzionanti, bisognava cercarle sul fascicolo milanese di Repubblica). Oppure su Disney +, dal giorno successivo. La regista cinese, con la complicità di Frances McDormand (Oscar come attrice protagonista), racconta gli americani che vivono nei camper, per povertà o spirito d’avventura. È sempre l’ora del tramonto sui maestosi paesaggi, musiche di Ludovico Einaudi per colonna sonora.
Alla Mostra di Venezia, dove ha vinto il Leone d’oro, già si intuiva la marcia trionfale di “Nomadland” verso gli Oscar. Il cinema della decrescita malinconica: piccole storie di gente che stenta la vita. Niente che possa evocare, neanche da lontano, la parola spettacolo. Chloé Zhao si è presentata con le treccine che sembrava Greta, e un abito di maglia firmato Hermès, benevolmente battezzato color avena (bianchissime le scarpe da ginnastica). Ci hanno pensato gli attori neri, a dare un tocco di colore: in fondo era la loro festa. Leslie Odom Jr., candidato per “Quella notte a Miami” di Regina King sembrava avvolto nella carta del Ferrero Rocher. Colman Domingo, musicista accanto al defunto Chadwick Boseman e a Viola Davis in “Ma Rainey’s Black Bottom”, pareva una caramella alla fragola (quando ci mettevano i coloranti artificiali).
“Minari” di Lee Isaac Chung era il grande rivale, quasi tutto parlato in coreano ma ambientato in Arkansas. Una famiglia in difficoltà, un ragazzino e una nonna scelti come calamita per applausi e premi. Ha vinto (attrice non protagonista) Youn Yuh-jung, anziana piantatrice di crescione per le generazioni a venire. La nuova scaletta 2021 premiava per ultimi gli attori protagonisti. Unica vera sorpresa, Anthony Hopkins: malato di Alzheimer in “The Father” di Florian Zeller. Non sono Oscar per giovani bianchi, l’ha spuntata solo la grintosa Emerald Fennell per la sceneggiatura di “Una donna promettente”, con l’arrabbiata Carey Mulligan.
Politicamente corretto e panettone