Porno da museo
Così la commedia sexy degli anni Settanta e i cinema a luci rosse contribuirono alla rivoluzione sessuale. Una mostra al Pecci di Prato
Infermiere, hostess, allenatrici, cameriere, insegnanti e persino adolescenti, sono solo alcune delle protagoniste dei film a luci rosse degli anni Settanta, con attrici straniere dai nomi esotici: Dayle Haddon in “Spermula”, Alice Arno in “Pornowest” e, “Un caldo corpo di femmina”, Francoise Zizi in “Porno libido”, Constance Money e Gloria Leonard in “A bocca piena”, giusto per citarne alcuni. I titoli dai contenuti espliciti oggi ci sembrano grotteschi, quasi comici. Questi incorniciavano i disegni colorati dei poster con donne in pose esageratamente provocanti, messe in evidenza da sottotitoli superlativi dove tutto è “superporno” o “supersexy”, “vietatissimo”, per dare risalto all’elemento trasgressivo.
Nel momento del boom del genere, questi manifesti avevano invaso le strade di gran parte d’Italia, rivolti a un pubblico di soli uomini, “arrapatissimi”, dai camionisti ai soldati di leva. A distanza di quasi mezzo secolo, quelle immagini – che un tempo tappezzavano strade sporche delle zone più malfamate delle città italiane – diventano oggetto di una mostra fotografica dal titolo “Cult fiction”, a cura di Cristiana Perrella, e le ritroviamo allestite dall’8 maggio nelle sale di un uno dei musei più attenti all’avanguardia d’Italia: il Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci di Prato.
L’autrice di questa originale raccolta di istantanee è Marialba Russo, napoletana, classe 1947, le cui fotografie sono state esposte in tutto il mondo. Si tratta di una collezione di sessanta locandine di film a luci rosse, fotografate dall’artista tra il marzo del 1978 e dicembre 1979, tra Napoli e Aversa, quando ancora non sapeva che questo tipo di manifesti sarebbero stati destinati a cadere ben presto nell’oblio. Infatti, di lì a breve, sia l’avvento dell’homevideo che la sempre maggiore “specializzazione” dei cinema hard-core, tale da fornire agli appassionati del genere informazioni certe su cosa sarebbe stato loro proiettato, resero superflua la spesa per la stampa delle locandine per quei film. La presenza su alcuni di questi manifesti delle star del fortunato fenomeno della Commedia sexy all’italiana, da Gloria Guida a Lory del Santo (qui ancora chiamata Loredana) a Edwige Fenech, nonostante si tratti di film hard, evidenzia inoltre come a volte, in alcuni casi, il confine tra sexy, soft-porn e porno sia stato difficile da definire.
“Alcune di queste fotografie sono stampate grandi e attaccate al muro con la colla, come grandi manifesti che fanno diventare lo spazio espositivo simile alla strada, altre presentate in modo tradizionale, incorniciate, di più piccole dimensioni, molto curate nella stampa, per restituire la grande attenzione dell’artista per la qualità anche tecnica del suo lavoro”, racconta la curatrice al Foglio. Marialba Russo solo di recente ha deciso di stampare questo eccezionale materiale rimasto inedito per quarant’anni, riconoscendone, oltre che la qualità di documento storico di grande interesse, la forza, quale opera d’arte, di essere capace di parlare dal passato e mettere in discussione il nostro presente.
Il Pecci ha voluto approfondire la ricerca dell’artista, avendone già ospitato alcune opere all’interno della collettiva “Soggetto Nomade” di due anni fa. Un’esposizione che, attraverso lo sguardo di quattro fotografe, indagava sul tema dell’identità femminile, dal preludio alla radicalità del ’68 fino all’edonismo degli anni Ottanta. Con questa nuova mostra il museo si conferma attento all’analisi della storia culturale del nostro paese dagli anni Settanta a oggi, e partecipe del dibattito internazionale sui temi più attuali. Durante l’esposizione il museo proporrà Radio Luna, un palinsesto di conversazioni sulla piattaforma social Clubhouse. Il titolo viene dall’omonima trasmissione radiofonica del 1975, prima e unica “radiosexy” italiana, con Ilona Staller, nota attrice di film a luci rosse, quale conduttrice. L’odierna Radio Luna ospiterà due appuntamenti settimanali, dedicati all’approfondimento dei temi trattati dalla mostra.
Con questa serie di immagini, Marialba Russo crea quasi un nuovo genere nella storia della fotografia, cogliendo quel momento particolare della nostra società durante il quale, insieme con quelle sale a luci rosse si stava diffondendo un cinema tutto al maschile. La mostra, attraverso l’installazione, sottolineando il forte impatto della pubblicità stradale sui fruitori, restituisce una qualche forza contraddittoria delle immagini. Infatti, se da un lato queste potrebbero essere forse inopportunamente ricondotte alla liberazione sessuale di quegli anni, dall’altro le stesse restituiscono più realisticamente un immaginario nel quale il corpo e la carica erotica femminile vengono meramente mercificati.
Su “Public Sex” (Nero editions), la pubblicazione che accompagna la mostra, il critico Goffredo Fofi scrive: “Gli anni Settanta furono anni di svolta in tutti i sensi, e furono anche gli anni orrendi dell’uccisione di Pasolini, dell’uccisione di Moro, dell’ascesa di Craxi e Berlusconi, dell’agonia e poi della rapida morte per suicidio della sinistra e della sua cultura, così fragile e così opportunistica, così compromessa. Furono gli anni della fine delle speranze post-belliche, della fine delle rivoluzioni, gli anni di una sfrenata autodifesa e vittoria del potere economico diventato anzitutto finanziario: il capitalismo nelle sue nuove forme, nei suoi nuovi assetti, con le sue nuove strategie”.
Dal punto di vista delle donne però, sono anni di battaglie per il conseguimento di importanti diritti: divorzio, aborto, riforma del diritto di famiglia, leggi contro la violenza sulle donne, consultori. Il “non detto” della sessualità femminile (più esplicitamente il diritto all’orgasmo) ricondotta esclusivamente alla procreazione e quindi intesa solo nella sua sfera “naturale”, resta tale e relega la donna al ruolo biologico di madre, sottomessa e interamente dedita all’uomo, decretandone così la rinuncia a una possibile realizzazione del proprio sé in qualsiasi ambito. In quegli anni non si parlava di “libertà”, ma di “liberazione”, come scrive Elisa Cuter, autrice di “Ripartire dal desiderio” (Minimum Fax, 2020), nel saggio scritto per il catalogo della mostra: “Marialba Russo il movimento femminista di quegli anni l’ha vissuto attraverso il suo lavoro… Il movimento contribuiva a creare lo spazio necessario a cambiare la mentalità, a consentire che per una donna fosse possibile realizzarsi attraverso il suo lavoro”.
E allora il potere guardare e fotografare in pubblico un’immagine esplicita, rischiando così di diventare lei stessa, in quanto donna, oggetto di sguardi indiscreti, diventa un atto significativo di libertà che ben valeva per la giovane fotografa, un qualsiasi eventuale rischio per quegli scatti rubati. E’ lei stessa a raccontare alla Cuter come ha realizzato questo corpus di opere: “Scattate fugacemente, di sottecchi, a distanza di sicurezza. A volte sbucando dal tettuccio aperto della sua Due cavalli, fingendo di stare fotografando altro. Perché poteva sembrare strano che una donna di trent’anni volesse immortalare quei poster scabrosi”.
D’altronde, l’amore per la fotografia era nato proprio a Parigi, durante il caldo maggio del 1968 – racconta la fotografa sulla web tv del Centro Pecci – quando, da studentessa di pittura all’Accademia di Belle Arti di Napoli, si recava spesso nella Ville Lumière. Allora, trovandosi nel pieno delle manifestazioni mosse proprio dall’Accademie des Beaux Arts, rimpianse di non avere in mano un obbiettivo e, tornata a Napoli, comprò la sua prima macchina fotografica, iniziando a sperimentare quel linguaggio artistico che non avrebbe mai più abbandonato. L’apprendere poi lo sviluppo delle immagini nella camera oscura arrivò a sostituire, in modo diverso, il gesto pittorico.
Ciò che muoveva la fotografa, come in altri suoi reportages, era l’attenzione, oltre che per l’aspetto estetico di un fenomeno, anche per quello antropologico. Questo la porterà a collaborare per diversi anni con la cattedra di Antropologia dell’Università di Salerno e a realizzare studi fotografici dedicati alle rappresentazioni religiose e alle feste popolari dell’Italia centromeridionale. “L’interesse, in questo caso, era quello di indagare su questo rituale tutto maschile del cinema porno”, continua Elisa Cuter descrivendo la spinta dell’artista nel “voler fermare i segni di una società che cambia e a interrogarsi su questa fase che inietta nel sistema retrogrado e patriarcale una disponibilità inedita di sesso, con donne disposte a farsi filmare, a farsi guardare, ma anche a partecipare a una rivoluzione dei costumi in atto”.
Tanti i giovani militari che affollavano le sale di quei film, come ci racconta Alberto Sordi nel primo episodio de “Il comune senso del pudore”, suo lungometraggio del 1976, nel quale Giacinto Colonna (interpretato da Sordi) insieme alla moglie Erminia vaga da un cinema all’altro alla ricerca di un film romantico, per celebrare l’anniversario di nozze della coppia, come desiderato da lei. Anticipando di un paio di anni il reportage di Marialba Russo, lo stesso Sordi qui propone una carrellata di poster di quei film a luci rosse nei quali i due fortunosamente si imbattono nel loro peregrinare per Roma. Significativo poi che Erminia, pur se scandalizzata dalle poche scene che lei e il marito fugacemente vedono cambiando ripetutamente sala, subirà in qualche modo l’influenza di quelle pellicole. Sordi voleva infatti raccontare i cambiamenti del senso del pudore e la capillare diffusione del porno, in quell’epoca, nella stampa, nell’editoria e nel cinema, e inserisce, esagerando, un fotogramma con una gigantografia della locandina di “Poppea 76” (pellicola di fantasia, ma non troppo dissimile dalla realtà), tale da coprire tutto un lato del Colosseo! E ancora la coppia romana si ritrova a essere snobbata dal sofisticato pubblico del centrale cinema Fiamma, che non esita ad apostrofare i due, innocentemente scandalizzati dalle scene di sesso ne “La cavalcata”, come “volgari” definendo invece l’osceno film più bello di “Ultimo tango”.
Come afferma il critico cinematografico, autore televisivo, saggista e regista Marco Giusti nel suo “Dizionario Stracult della Commedia sexy” (Bloodbuster, 2019), “la via al cinema erotico in Italia è stata una rivoluzione artistica e politica, dal momento che ad aprire la strada è stata la prima linea del cinema più impegnato e artistico, diciamo la nostra Nouvelle Vague”. Continua Giusti raccontando al Foglio, “Il ‘Decameron’ di Pier Paolo Pasolini del 1971 e ‘Ultimo tango a Parigi’ di Bernardo Bertolucci del 1972 sono stati i primi film sessualmente espliciti trasmessi nelle sale che trasgredivano le convenzioni moralistiche e sono stati campioni d’incasso. Pasolini, che aveva realizzato la sua ‘Trilogia della vita’ (che oltre al ‘Decameron’ include, ‘I racconti di Canterbury’ e ‘Il fiore delle mille e una notte’) per contribuire alla libera espressività del corpo, si rese conto che questo genere di opere, mal interpretate, avevano dato il via a prodotti di erotismo di bassa qualità che sfruttavano la scarsa formazione culturale dell’italiano medio”, e cita la famosa “abiura” di Pasolini dalla “Trilogia della vita”, notazione questa riportata come incipit anche da Goffredo Fofi nel suo testo incluso nel catalogo della mostra di Marialba Russo.
Nel 1973 in un celebre convegno a Bologna, Pier Paolo Pasolini tenne un discorso, poi raccolto sotto il titolo di “Tetis”: “Venuti in possesso della libertà sessuale per concessione, e non per essersela guadagnata, i giovani – borghesi, e soprattutto proletari e sottoproletari – se tali distinzioni sono ancora possibili – l’hanno ben presto e fatalmente trasformata in obbligo. L’obbligo di adoperare la libertà concessa: anzi, d’approfittare fino in fondo della libertà concessa, per non parere degli ‘incapaci’ o dei ‘diversi’: il più tremendo degli obblighi. L’ansia conformistica di essere sessualmente liberi trasforma i giovani in miseri erotomani nevrotici, eternamente insoddisfatti (appunto perché la loro libertà sessuale è ricevuta, non conquistata) e perciò infelici”. Come le parole di Pasolini, le immagini di Marialba Russo, viste nel loro insieme, attraverso la ripetizione, smascherano l’elemento standardizzato, anzi ridicolo, del sesso come merce. Eppure quegli anni erano ancora lontani da un sano e saggio processo di emancipazione femminile, per potere le donne vivere consapevolmente la propria liberazione, non solo sessuale.
“Glicked” o “Wickiator”