Un altro giro, grazie

Mattia Giusto Zanon

Un film tributo all’alcol, ora al cinema, senza moralismi ma nemmeno uno spot alle dipendenze. Con tutte quelle sfumature che solo una produzione europea può riuscire a rappresentare. Un inno alla vita 

"Il vino è uno dei maggiori segni di civiltà nel mondo" scriveva Ernest Hemingway in Morte nel pomeriggio. Un autore i cui romanzi e racconti anche solo a una lettura distratta si rivelano dei veri ricettari da barman consumato. Dalle varie indicazioni su come miscelare un degno Daiquiri "il modo più civile di bere rum", alle menzioni ricorrenti al Sidecar – un drink a base di brandy contenuto in Fiesta Mobile, uno dei più noti cocktail “crusta”, con la bordatura del bicchiere ricoperta di zucchero – sono pagine che raccontano una cultura alcolica connaturata alla vita di un autore che ne faceva in parte anche uno strumento di lavoro. 

 

Ma se Hemingway – citato ripetutamente nel film – aveva la passione per i cocktail caraibici, i personaggi di “Un altro giro” sembrano prediligere invece la Vodka, liscia o allungata con qualsiasi cosa capiti a tiro, dato che il loro scopo è diverso, più occulto e da tenere lontano dalla pubblica piazza. Di qui la scelta di un liquore noto per il suo scarso sapore e utilizzato da molti “teorici dell’ubriacatura” addirittura come antidoto alla sbornia, sotto forma di sanguigni Bloody Mary magari carichi di sedano e Tabasco.

 

Sullo sfondo danese il volto che ci appare più spesso davanti agli occhi è quello di Mads Mikkelsen. Lo sguardo fino, gli occhi due fessure semichiuse con cui rubare in fretta interi sprazzi di mondo. Nel racconto è Martin, un algido e silenzioso professore di Storia. Semi-depresso, è amico di altri tre insegnanti dello stesso liceo, non ancora incanutiti ma tutti lo stesso in aria da crisi di mezza età: Tommy, che insegna ginnastica e allena i pulcini al campetto (Thomas Bo Larsen), Peter (Lars Ranthe) professore di musica e Nikolaj (Magnus Millang) che invece insegna psicologia.

 

Durante una cena di compleanno a quattro, anche quella fortemente alcolica nonostante l’iniziale reticenza di uno di loro, dopo vodkine e caviale, Champagne e vini di Borgogna, esce una teoria. Uno studio peraltro reale, dello psichiatra norvegese Finn Skårderud secondo cui un leggero stato di alterazione alcolica nel sangue sarebbe di beneficio per l’uomo. Assecondando l’adagio di Aristofane secondo cui "bevendo, gli uomini migliorano" i quattro decidono di provarlo. Si impegnano cioè da quel momento in poi a essere sempre dignitosamente brilli, il che significa bere solo di giorno e durante l’orario di lavoro, mai la sera e mai nel weekend. È una premessa contro tutto e tutti, per un film che non ha paura di essere un inno all’alcol, con tutto quello che di tragico potrebbe accadere alle esistenze dei protagonisti per effetto di una decisione simile.

 

“Druk”, è il titolo originale di quest’opera riuscita di Thomas Vinterberg, in inglese “Another Round”, titolo che abbiamo ripreso anche noi alla lettera, e che ha trionfato agli ultimi Oscar come miglior titolo internazionale. Il film mostra gli alti gloriosi e i minimi distruttivi che gli eccessi dell’alcol comportano, evitando miracolosamente di diventare una commedia in stile post-sbornia da uomini malcresciuti che non si sanno ancora comportare ed evitando al tempo stesso di impartire lezioni morali tanto dogmatiche quanto non richieste.

 

Ci sono personaggi storici pluri-citati da Martin, che sembra nutrire una vera ossessione per Churchill, amante del Gin, e Roosevelt, che girava per il mondo con un “Martini kit” su misura e che alla conferenza di Teheran nel 1943 aveva insistito per mescolare la sua “ricetta segreta” allo stesso Stalin. Personaggi che più che ostacolati nella loro vita dall’alcol, se non avvantaggiati, sono stati sicuramente ben accompagnati. 

 

Quella di Vinterberg non è una semplice “tragicommedia alcolica”, ma un qualcosa di più complesso e sfumato, con l’incredibile dote di essere riuscito a inserire una scena simil-musical, capace di ottenere una vibrazione anche in chi non ama il genere, in cui si balla sulla banchina del porto di Copenhagen con le bottiglie di spumante in mano, bevendo a canna per festeggiare la fine dell’anno scolastico, e in cui Martin assieme ai compari si lancia in un’incredibile danza liberatoria sulle note di “What a Life” degli Scarlet Pleasures, band semi-sconosciuta e regalata al mondo proprio grazie al brano contenuto nella pellicola. Ispirato all’esistenzialismo di Søren Kierkegaard, il film inizia con un suo aforisma "Che cos’è la giovinezza? Un sogno. Che cos’è l’amore? Il contenuto del sogno". Una dedica che il regista ha voluto alla figlia Ilda, morta in un incidente stradale proprio durante le riprese del film. 

 

Dopo il trionfo agli Oscar, ha fatto discutere una recente notizia secondo cui Leonardo Di Caprio sarebbe pronto a fare da produttore e anche recitare in un remake in lingua inglese. Proprio come accade per altri argomenti tabù in molti Paesi, anche il modo in cui il discorso intorno all’alcol – che più che una sostanza è un concetto – viene affrontato, hanno pesi completamente diversi a seconda della nazione in discussione. Gli Statunitensi lo capirebbero? Forse sì, forse no. In fondo il film parla di abbracciare la vita, di ritrovare la propria vita, anche quando sembrava ormai persa. Più che un inno all’alcol, un inno alla vita, in cui nonostante tutto, c’è sempre spazio per un altro giro.

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