il foglio del weekend
Vade retro Spielberg
L’Italia dell’antiamericanismo e della lotta di classe era schifata da “Indiana Jones”. Per fortuna che oggi c’è Pesaro
Nel settembre del 1973, Steven Spielberg è a Roma per presentare, “Duel”, il suo film d’esordio. E’ la prima volta che esce dagli Stati Uniti, ha ventisei anni e sin lì ha girato cortometraggi e telefilm per la Universal (tra cui una puntata del “Tenente Colombo”). Dell’Italia conosce i nostri grandi film e poco altro. Conserva ancora oggi una foto di quel viaggio: lui abbracciato a Federico Fellini che lo guarda come un alieno (“mi fece vedere la città con i suoi occhi”). La foto è risaltata fuori ai David del 2018, quando Spielberg premiò Donato Carrisi in un momento surreale dello show di RaiUno, con la regia che inquadrava l’autore di “La ragazza nella nebbia” e teneva fuori campo quello di “E.T.”. Ma torniamo a “Duel”. La proiezione-stampa di Roma fu un disastro. Finito il film, i critici italiani vogliono sapere se questo lungo inseguimento tra un’autocisterna e una “Plymouth” guidata da Dennis Weaver è una “metafora della lotta di classe”. “In che senso?”, chiede Spielberg. Quelli sbuffano e riprovano: “L’automobilista è un simbolo della classe operaia americana minacciata dal postfordismo?”. Spielberg, che pensava di aver fatto un film di suspense e al posto della lotta di classe aveva in mente gli inseguimenti degli amati “Willy Coyote” e “Beep Beep”, non sa ben cosa rispondere. Gelo in sala. Come in una protesta sindacale, i critici si alzano e vanno via. Spielberg torna in albergo affranto, non capisce dove ha sbagliato, e per un po’ non avrà molta voglia di tornare in Europa. “Duel” invece sarà un successo. Si spalancano per lui le porte di Hollywood.
A Roma, Spielberg scopre le infinite risorse ermeneutiche della critica marxista che, da lì in poi, e almeno fino agli anni Novanta, trasformerà i suoi film nell’emblema di tutto ciò che c’è di sbagliato nel cinema hollywoodiano. Come ha detto Lester Friedman: “Fino a non molto tempo fa, occuparsi di Spielberg rappresentava per un accademico l’equivalente di un’apparizione in un film porno”. Da professore di Storia del cinema all’Università confermo (c’era il cinema serio, pensoso, politico e riflessivo, e poi milioni di deficienti sparsi in tutto il mondo che amavano i film di Spielberg). Quanti aspiranti registi di “un certain regard” spiegano ancora oggi che fare quei film lì è facile. Basta avere tanti soldi. Ci riuscirebbero anche loro se lo Stato glieli desse, ci vorrebbe un fondo per il “blockbuster di cittadinanza”, magari col recovery fund, chissà.
L’anteprima romana di “Duel” ci è tornata in mente perché questa settimana si è molto parlato dei quarant’anni di “Indiana Jones”. Si sono viste anche le prime foto dal set inglese di “Indiana Jones 5”, con Harrison Ford in mascherina che aggiorna all’epoca del Covid l’immagine dell’archeologo più famoso di tutti i tempi. Alla Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, Gabriele Mainetti, regista di “Jeeg Robot”, presenta in piazza “Indiana Jones e i predatori dell’Arca perduta” (succede sabato, nella serata inaugurale della Mostra).
Pesaro è il tempio del counter-cinema, dei film di ricerca e sperimentazione, teatro dei contest di semiologia tra Eco e Pasolini. Nel programma del Festival, “Indiana Jones” va insieme ai film di Liliana Cavani, alla retrospettiva del “Collettivo Cinema Militante” di Milano, ai videoclip di Mahmood e Elisabetta Sgarbi (del resto già nel 2015, si rese omaggio a “Lo squalo” e Pasolini insieme). Pop e avantgarde. Per i venti-trentenni di oggi, niente di più normale. Ma pensando a quel che si scriveva e diceva del cinema di Spielberg, quando i suoi film erano lo sterco del diavolo, a noi boomer, si capisce, fa ancora un certo effetto. “Indiana Jones” fa quarant’anni, ma ci sono anche cinquanta di “Duel”, cioè l’alba di Spielberg, che esce nel 1971, anche se poi sarà rimontato per il mercato europeo nel ’73. Tratto da uno script di Richard Matheson, nato come film televisivo per il network Abc, esteso poi al formato cinematografico e mandato in sala, “Duel” è già un manifesto del cinema di Spielberg: c’è la capacità di costruire un racconto solo con le immagini, riducendo i dialoghi al minimo, c’è la suspense hithcockiana calata in un paesaggio western à la John Ford, c’è l’uomo comune travolto da circostanze straordinarie (“è la storia di qualcuno cui capita qualcosa che gli cambia la vita per sempre”, dice Spielberg quando gli chiedono “che cos’è un film”). Ma non c’è la lotta di classe.
Quel giorno, i critici romani inaugurano così una lunga serie di letture del cinema di Spielberg fondate su una miscela esplosiva di antiamericanismo, fastidio per la cultura popolare, intossicazione ideologica, prosa illeggibile e fiera incomprensione delle logiche economico-produttive di Hollywood che in quegli anni sta cambiando pelle. “Lo squalo” (1975), “Indiana Jones” (1981), “E. T.” (1982) diventano il sintomo di un involgarimento del pubblico. Un “ritorno all’ordine” dopo la rivoluzione culturale di “Easy Rider”, che spiana la strada ai “terribili” anni Ottanta di Spielberg e Lucas che fanno lo sporco gioco degli Studios. La combinazione di box-office stratosferici, film-franchise, merchandising, nonché i tratti stessi del personaggio Spielberg (più un film fan onnivoro col cappellino da baseball che un sofisticato cinephile, più un appassionato di fumetti e videogiochi che un intellettuale) sono del resto in contraddizione con i canoni tradizionali dell’eroe romantico che lotta contro gli Studios per affermare la propria libertà artistica (“sono stato influenzato più da dirigenti come Sid Sheinberg o da produttori come Zanuck”, dirà Spielberg, “che non dai miei coetanei degli anni Settanta; ero un figlio dell’establishment, non uno della Nyu o della cricca dei protetti di Francis Ford Coppola”, Spielberg regista delle lobby, della casta, dei privilegi e delle auto blu).
L’arrivo de “Lo squalo” nei cinema, nell’estate del 1975, cambia tutto. Hollywood scopre due cose fondamentali. Prima di tutto che, con un marketing innovativo e una distribuzione a tappeto, si possono incassare quarantotto milioni di dollari in un weekend. Poi, che il giro d’affari del merchandising supera quello degli ingressi in sala. “Lo squalo” diventa il più grande incasso di Hollywood. Ma la vendita di magliette, poster, bicchieri, flipper, giochi di qualsiasi tipo con la sagoma dello squalo che punta la sua vittima annichilisce anche quel record. La critica marxista lancia l’allarme. “Lo squalo” diventa lo spunto per fumosissime riflessioni sul funzionamento ideologico del cinema hollywoodiano e analisi che lo trasformano in un sintomo della “reificazione della cultura di massa” (come recita il titolo di un celebre saggio di Fredric Jameson). Le cose però si complicano sin da subito. Fidel Castro, infatti, si dichiara un grande ammiratore del film. E’ lo squalo, non lo sceriffo interpretato da Roy Scheider, il vero eroe di un film che per il leader maximo è un “lampante manifesto dell’anticapitalismo”. Lo squalo come incarnazione della colpa di quel sistema predatorio, spietato, fondato sull’egoismo e il profitto. Una piaga biblica mandata dal cielo. Un monito contro la borghesia individualista di tutto il mondo. I Cahiers du cinéma, invece, bollettino dell’internazionale cinefila, all’epoca in pieno delirio maoista-dalemiano, lo stroncano perché “privo di un punto di morale”. Così scrive il guru, Serge Daney, in un articolo che sin dal titolo (“Matière grise”), tradisce lo sprezzo per l’immediatezza comunicativa di un film che sta terrorizzando il mondo intero, Parigi compresa, ma che ai suoi occhi sta “conducendo lo spettatore verso una totale irresponsabilità” (il divertimento, l’adrenalina, la paura, per carità). Fioccano le analisi femministe. Qui lo squalo diventa l’incarnazione della “vagina dentata” di Freud. “Come fa Lo squalo a piacere a un pubblico così vasto, che necessariamente include molte donne, nonostante la sua misoginia e le fantasia erotiche aggressive, tipicamente maschili che mette in gioco?” (ci si domanda sulla rivista militante “Jump Cut”).
In Italia, unico caso al mondo, “Lo squalo” non è primo negli incassi. In vetta al box office c’è “Amici miei” di Monicelli, ma la squalomania colpisce anche qui. La stampa però fa il tifo per “Fratello mare”, documentario di Folco Quilici girato nella Polinesia e uscito a ridosso del film di Spielberg. E’ una “sana” alternativa al superspettacolo hollywoodiano, che oppone alla caccia allo squalo, l’amore per la natura, la convivenza di tutte le specie e la decrescita felice. Per “L’Unità”, “Lo squalo” è “l’ultima marmellata di Natale pensata dagli stregoni dell’intrattenimento, fiutando l’aria al di sopra della testa del pubblico”. Inconcepibile anche il fatto che l’autore del libro (Peter Benchley, all’epoca giornalista del “Washington Post”) abbia frequentato un corso di “creative writing” all’Università che, “non si capisce bene cosa sia e a cosa serva”. Forse a scrivere bene i film, chissà. Di fronte al successo altrettanto strabiliante di “Indiana Jones” si sfoderano invece i Contras del Nicaragua. Questo eroe di Spielberg e Lucas, infarcito di vecchi eroi del cinema classico hollywoodiano (Bogart, Errol Flynn, il Charlton Heston del “Segreto degli Incas”), è un simbolo dell’agenda conservatrice di Reagan, eletto l’anno prima. Quella caccia al tesoro nella foresta del Perù, con cui si apre il film, altro non è che una trasparente allegoria dell’operazione controrivoluzionaria messa su per combattere il governo sandinista. Al pari del “Lo squalo”, che ha cambiato le pratiche di distribuzione e di marketing e inventato di fatto il moderno blockbuster, “I predatori dell’arca perduta” è un film invece assai rivoluzionario sul piano produttivo. Spielberg e Lucas propongono alla Paramount di coprire i costi di produzione e marketing del progetto, rinunciando alle “distribution fees”, chiedendo però di dividere equamente gli incassi netti.
Se con “Duel” Spielberg si afferma come regista brillante, creativo, spregiudicato, col primo film della saga “Indiana Jones” scopre le sue non meno strabilianti capacità di produttore e manager. Ma di queste cose non c’è traccia nelle letture dell’epoca. Per l’Unità, “Indiana Jones” non ha “niente da spartire col cinema”. E’ un “marchingegno fragoroso e colorato” è un “film la cui realizzazione, si fa per dire, è stata affidata da Lucas a quel giocherellone plurigettonato di Spielberg”. “I predatori dell’arca perduta”, insomma, è “un conglomerato perfetto di protervo affarismo e di lucrosa quanto scriteriata vacanza mentale” (si usano gli stessi toni, le stesse frasi, gli stessi termini delle stroncature del cinema “ebraico-hollywoodiano” nell’Italia degli anni Trenta: del resto, non pochi critici passarono con gran disinvoltura dalla “difesa della razza” a quella della classe operaia). “E.T.”, ennesimo film spielberghiano che polverizza ogni record, è invece una subdola “regressione organizzata dalle multinazionali dello spettacolo”, come scrive l’Unità. Con la scusa di farci tornare bambini per due ore i film di Spielberg manipolano la nostra coscienza critica. L’Unità lancia un appello disperato agli “adulti in procinto di consumare la loro razione di E.T.”: che riflettano prima di lasciarsi andare al pianto e alla più subdola commozione.
Si potrebbe continuare a lungo. Anche se poi, col crollo del Muro e l’arrivo dei film “seri” di Spielberg (“Schindler’s List”, “Salvate il soldato Ryan”) i toni cambiano. Ma ci sono voluti quasi trent’anni. Sono cose capitate anche con Hitchcock (ogni tanto vale la pena rileggersi la comunistissima stroncatura de “La finestra sul cortile” di Italo Calvino sulle pagine di “Cinema Nuovo”). Ma a differenza di Hitchcock, Spielberg non ha avuto una banda di critici francesi, Truffaut, Rohmer, Chabrol, che ha preso e rovesciato i suoi film per dimostrare che dietro quelle spy story, e dietro le rigide regole industriali di Hollywood, c’era un’intelligenza visiva strabordante. Spielberg però arriva dopo il ’68. Non sono più possibili certi discorsi. L’antiamericanismo, la radicalità politica, la lotta di classe, sono le battaglie più importanti. E poi Spielberg, lo Spielberg degli anni Ottanta, sembra casomai la prosecuzione di Walt Disney con altri, più potenti e ammalianti mezzi. Ma proprio il vate della rivoluzione cinematografia, sua maestà, Sergej Ejzenstejn, definiva i film di Disney come “il più grande contributo del popolo americano all’arte del XX secolo”. Ecco perché non possiamo non dirci spielberghiani. Ecco perché rivedere oggi i suoi film lì dove un tempo non sarebbero mai stati proiettati, come alla Mostra di Pesaro, è ancora più bello.
Politicamente corretto e panettone