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Perché vale la pena vedere School of Mafia

Mariarosa Mancuso

Il film diretto da Alessandro Pondi qualche soldino in sala lo farà. Se prima non verrà messo in croce per tutti i reati previsti dal ddl Zan. Almeno fino a metà, funziona benissimo. Poi purtroppo si perde. Ma si capisce che ci hanno lavorato parecchio

“I giovani registi italiani portano a Cannes un’Italia arcaica tutta da scoprire”. Il triste annuncio si legge in testa a un articolo uscito sulla Stampa: siamo pur sempre un paese fondato sul neorealismo. Cosa ci sarà da essere fieri, non si sa. Ma l’articolo non intendeva essere una critica. Piuttosto, una certificazione dei sani principi che la gioventù registica ancora coltiva. E dunque, chi rifà i “Comizi d’amore” di Pier Paolo Pasolini, che con il microfono in mano interrogava sulla verginità gli operai e le operaie fuori dalle fabbriche. Chi torna a Gioia Tauro, pur con un passaporto americano, e un film prodotto da Martin Scorsese nel curriculum. Chi va a frugare tra le leggende contadine, e chi rovista tra i residui di paganesimo intrecciati alla religione cattolica.
   

In attesa delle penitenze, abbiamo visto “School of Mafia” diretto da Alessandro Pondi, finora soprattutto sceneggiatore. Che al Festival di Cannes certo non andrà, ma forse qualche soldino in sala lo farà. Se prima non verrà messo in croce per tutti i reati previsti dal ddl Zan. Non si sa mai cosa succede con queste faccende. Quando i social cominciano a strillare – e il senso dell’umorismo non è il loro forte – è difficile prevedere come finirà.
   

No, non per lesa mafia. Si dà il caso qui che il superboss sia caduto dal ponte di Brooklyn. Restano tre boss con altrettanti figli inadatti al comando, rapiti e mandati nel palermitano per rieducarsi e imparare il mestiere. Al momento, uno fa il cantante rock, uno è all’ultimo anno della scuola di polizia (NYPD), e il terzo sculetta in palestra (si può dire “sculetta”? Del resto la mossa, inquadrata sulla tutina turchese in primissimo piano, non lascia dubbi).
   

Titolare della cattedra “Teoria e pratica mafiosa” è Turi U’Appicciaturi, un bravissimo Nino Frassica che non sbaglia un tono, e ha abbastanza battute per brillare sugli allievi (abbastanza svogliati, non sveglissimi, tentano di scappare e sono subito riacchiappati). Gli fa da spalla, ma di quelle spalle che sanno rubare la scena, Salvo U’Svizzero (Maurizio Lombardi) puntiglioso nelle spiegazioni fino allo sfinimento. Là dove la Sicilia è più Sicilia, e il sole picchia, gira in completo scuro con gilet (e anche la sua andatura da ballerino qualche sospetto lo fa venire).
    

La mafia da ridere non è una novità, da “Terapia e pallottole” di Harold Ramis con Robert De Niro (anno 1999, quando si poteva mettere in un copione la minaccia “io frocio, tu morto” – da rivolgere allo psicoanalista) ai primi romanzi di Ottavio Cappellani. Quel che colpisce, trattandosi di film italiano, è la scelta precisa di non limitarsi all’idea, per poi mettere il pilota automatico fino alla fine del film. “School of Mafia”, almeno fino a metà, funziona benissimo. Poi purtroppo si perde, tra il secondo atto e un finale debole. Ma si capisce che ci hanno lavorato parecchio. 

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