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Anna Frank a Cannes
Come raccontare una tragica storia che tutti credono di conoscere? Serviva un punto di vista originale e Ari Folman lo ha trovato. Con l'animazione di Yoni Goodman e i disegni di Lena Guberman
Come ogni bravo ragazzo ebreo, Ari Folman ha una mamma che si impiccia volentieri dei fatti suoi (come da tradizione: “Dio non poteva essere dappertutto, per questo ha creato le mamme”). Quando la Anne Frank Foundation chiese al regista di “Walzer con Bashir” un film per tenere viva la memoria della ragazza e del diario tra i giovani che la ricordano come obbligatoria lettura scolastica, se non come un’attrazione turistica tra i canali di Amsterdam, mamma Folman disse: “Se non lo fai, morirò nel fine settimana. Domenica puoi venire a prendere il mio cadavere”. Il ricatto si completava così: “Se farai il film, resterò in vita fino al giorno della prima”. Non immaginava che ci sarebbero voluti otto anni, ma ha mantenuto la parola, arrivando viva a 99 anni.
Come raccontare una tragica storia che tutti credono di conoscere? Serviva un punto di vista originale – meglio se non pretestuoso, si possono fare danni. Ari Folman lo ha trovato in Kitty, l’immaginaria ragazzina a cui sono indirizzate le lettere dalla soffitta. Serviva una tecnica nuova: l’animazione di Yoni Goodman che aveva reso fantastico e insieme iperrealistico “Walzer con Bashir”. Tredici anni fa qui a Cannes, una rivelazione che si ricorda: nessuno prima tranne la sua mamma conosceva il nome del regista. Raccontava la guerra in Libano del 1982, Ari Folman l’aveva combattuta ma a differenza dei commilitoni non aveva nessun ricordo, neanche un incubo.
“Where is Anne Frank” si conquista a Cannes dopo un’ora di attesa con ruffiane musichette tipo aereo, da “Zou bisou bisou” a “Carioca”. Accompagnate da uno speaker che raccontando questo e quello intrattiene i festivalieri ligi alle istruzioni scritte sul biglietto. Su Anna Frank, ovvio, proprio un bel concentrato della retorica che il film vuole spazzare via. A furia di ripetere le stesse cose, il povero Ari Folman da israeliano diventa algerino. Leggiamo allora Hollywood Reporter: in un’intervista, il regista rivela che parte della sua famiglia fu deportata lo stesso giorno di Anna Frank, sul finire della guerra.
Fuori dalla casa-museo di Amsterdam, i turisti fanno la fila per vedere la cameretta e il diario originale. Il vento spazza i canali, pure le tende dei rifugiati che stazionano poco lontano (qui siamo al capitolo: “Cosa ci insegna oggi Anna Frank”). La tempesta spacca una finestre, una stilografica sputa un po’ d’inchiostro, si materializza una ragazza dai capelli rossi (“sono io che ti ho voluta così”, spiega la diarista all’amica immaginaria che si lamenta e chiede: ma io sono ebrea?). Ha un vestito fuori moda, come riportato nelle schede segnaletiche della polizia che cerca di ritrovare la ragazza che ha rubato il diario.
Gli splendidi disegni sono di Lena Guberman, che assieme ad Ari Folman firma la graphic novel appena uscita in Francia da Calmann-Lévy. Il film va avanti e indietro nel tempo, dalla cameretta dove parlare di corteggiatori alla soffitta, mentre in strada si aggirano nazisti alti come giganti: tali e quali alle truppe dell’impero galattico, con il mantellone di Darth Vader. Si insiste sulla passione della ragazzina prigioniera per i divi del cinema e la mitologia, quindi le armate del bene vedranno cavalcare insieme Ercole e Cary Grant. Kitty però vuole sapere cosa è successo dopo, con lei saliamo sul treno per Bergen-Belsen.
“Where Is Anne Frank” è in fuori concorso. Ma premi o non premi troverà la sua strada nelle proiezioni scolastiche (si spera senza sortire l’effetto contrario). Molto bello e pieno di idee, resta a misura di spettatore ragazzino. Tra i titoli in concorso, abbiamo visto “Lingui” (“Legami di famiglia”): arriva dal Ciad, diretto da Mahamat Saleh Haroun. Non ha suscitato l’entusiasmo che merita, lontano dall’Africa che piace ai festival. Per dire, qui una donna vive intrecciando cestelli con fili di metallo estratti dai cerchioni dei camion. È tenuta a distanza da tutti, famiglia compresa, per via di una figlia avuta senza essere sposata (glielo ricorda l’antipatico vicino: o mi sposi o sarai per sempre reietta). Lei però riesce a mandare sua figlia al liceo francese. E a tenersi abbastanza lontana dalla moschea.
La figlia si fa cacciare, incinta senza marito pure lei. Bisogna in qualche modo rimediare, e nel tempo di un’ora e mezza facciamo un bel giro tra medici, mammane, brave donne che se richieste di praticare escissioni – i musulmani avanzano, i mariti appena convertiti la richiedono per le bambine – fingono di farle. Ben scritto, ben recitato. Senza tempi morti e senza immagini o parole retoriche (che in materia di solidarietà femminile sono sempre in mezzo a noi).
Per le scandalose monache di “Benedetta”, diretto dal Paul Verhoeven di “Basic Instinct”, appuntamento sul sito, abbiamo preferito Anna Frank. Tra i titoli in concorso, c’era anche “Julie (en 12 chapitres)” di Joachim Trier. Benevola traduzione francese, l’originale recita “La persona peggiore del mondo”: si può sempre contare su un regista nato in Danimarca per un po’ di gentilezza verso le signore. Julie è l’indecisione fatta trentenne, cambia mestieri e uomini allegramente (l’allegria di Oslo, va detto). Fare figli? Non fare figli? Un fine settimana con gli amici sposati basta a dissuaderla. Preferisce imbucarsi a una festa, rimorchiare un giovanotto, e fare con lui giochetti pericolosi. Chiedendo di volta in volta: passarsi il fumo da una bocca all’altra è tradimento? E annusarsi le ascelle? No, entrambi si dichiarano fedelissimi ai rispettivi fidanzati. Ma non si scappa, arriva la moralistica punizione.
Politicamente corretto e panettone