popcorn a cannes
Spike Lee imprevedibile, chi vincerà il Festival?
Stasera la premiazione, in testa c'è il giapponese "Drive my car". Poche possibilità per Wes Anderson, davanti a lui c'è "Annette" di Léos Carax. Alla faccia delle intenzioni, un festival molto bianco, poche donne, e tanto temutissimo "slow cinema"
Per dire quanto siamo sfasati, sull’anno cinematografico. Variety sta già occupandosi dei pronostici per gli Oscar, tra le attrici in prima fila c’è Kristen Stewart, altra infelicissima Diana in “Spencer” del cileno Pablo Larraín. Pochi azzardano previsioni su Cannes 2021: l’imprevedibilità di Spike Lee mette paura. Ha poche possibilità il nostro preferito, Wes Anderson con “The French Dispatch”: quando i giornalisti si divertivano, improvvisavano, avevano una vena di follia e una penna brillante. Quando c’erano lettori entusiasti che leggevano articoli scritti da altri, senza comporre frasette in proprio e cercare like con “Muore cadendo dalle scale. Si era appena vaccinato”.
Wes Anderson non è piazzato bene nella pagellina dei critici internazionali. Prima di lui c’è il musical – opera pop, meglio, senza i recitativi – “Annette” di Léos Carax, che ha aperto tra gli applausi questo festival fuori stagione (sembra niente, ma il 14 c’erano i fuochi per la festa nazionale della Bastille, decine di persone in coda fuori dai ristoranti, senza mascherina). Meritatamente, Adam Driver è bravissimo, Marion Cotillard non sfigura, la figlia-marionetta incantevole.
In cima a tutti, sempre nella tabellina di Screen International, il giapponese “Drive my Car” di Ryûsuke Hamaguchi, da un racconto di Haruki Murakami. Una “short story”, per essere precisi, espansa a quasi tre ore di film. Un intrigo di amore, sesso, tradimenti, teatro, cassette registrate per imparare le battute, fedeli autisti anche loro con una storia da raccontare, dopo la reticenza iniziale.
Protagonista, un regista che ha messo in scena “Aspettando Godot” (Beckett alza subito il livello e ribadisce la passione di Murakami per tutto quel che è occidentale) e sta per mettere in scena “Zio Vania” di Cechov (altra scelta che subito crea complicità con lo spettatore festivaliero). L’amatissima moglie a letto improvvisa racconti erotici – poi deciderà di passare all’atto con un giovane teatrante. Lui perde la vista, e ossessivamente ascolta le cassette con le prove registrate, lei gli dava le battute. Non è detto però che a Spike Lee, arrivato sulla Croisette con spirito rivoluzionario e barricadiero (aggiungendo di aver sempre avuto un pessimo rapporto con i premi), il melodramma giapponese piaccia più dell’americano bianco, del francese bianco che vuol farsi americano.
Sicuramente gli piacerà “Casablanca Beat” di Nabil Ayouch, primo film marocchino in concorso a Cannes. L’hip hop come liberazione e come protesta, non disgiunto da molta pratica e conoscenza delle tecniche. I ragazzi del ghetto di Casablanca, tutti bravissimi, recitano nella parte di se stessi – a differenza di quel che accade nei classici del genere, a cominciare da “Saranno famosi”. Qui puntano sul successo del gruppo, non a diventare star in assolo: nell’anno che ci ha visti distanziati e confinati potrebbe essere un asso nella manica.
“Drive My Car” non è l’unico film che punta sul senso dell’udito. C’è anche “Memoria” di Apichatpong Weerasethakul, beniamino dei festivalieri da noi temutissimo: le idee di cinema non coincidono. Anni fa abbiamo ricevuto una cortese lettera che ci rimproverava di non essere sensibili alla spiritualità tailandese. Confermiamo e ribadiamo, vale anche per questo suo primo film girato in inglese (evidentemente, un più ampio mercato non guasta la magia).
Tilda Swinton riesce ad aggirarsi con eleganza in un film senza capo né coda. Vive a Medellin, coltiva fiori, una notte si sveglia per un forte scoppio che sembra esistere solo nella sua testa. Il giorno dopo al ristorante in compagnia sente sparare; ma è l’unica, costretta a conversare come se niente fosse. Seguono misteri. Il critico del Guardian Peter Bradswah, innamorato come un ragazzino al primo film, sostiene che lo spettatore esce dalla sala convinto che i vivi e i morti, il presente e il passato, l’aldiqua e l’aldilà convivono in armonia. Sintesi critica: “slow cinema that decelerates your heartbeat” (“cinema lento che vi rallenta il battito cardiaco”, non siamo tanto sicuri che faccia bene).
Dopo l’invito a Spike Lee, primo presidente nero di giuria, il programma era piuttosto monocolore, e molto francese. Un regista guastatore come Bruno Dumont – ha cominciato con il white trash di Francia, lassù verso Lille, poi ha girato un musical su Giovanna d’Arco – porta in concorso “France”. Una giornalista televisiva di successo, biondo platino e rossetto scarlatto, che fa reportage sul campo (un po’ truccati, forse lo è anche anche la lacrima con cui sale a bordo del canotto con gli immigrati). La strepitosa Blanche Gardin (si spera ancora fidanzata con Louis C. K.) ha la parte della produttrice, a fianco di Léa Seydoux – che era nel cast di altri due film in gara e rischia un premio, oltre a Tilda Swinton non c’erano tante donne. Maschi possibili, per la Palma: André Dussollier post-ictus in “Tout c’est bien passé” di François Ozon e il più aitante Simon Rex in “Red Rocket” di Sean Baker. Stasera la premiazione, preceduta da un concerto di Bill Murray.
Politicamente corretto e panettone