Oltre il cinema
Tarantino è molto più di un regista. "C'era una volta a Hollywood", il libro, ne è la prova
Non bastano qualche stallo messicano e molte carneficine per fare un artista come Quentin, che prima di essere un bravo regista è un bravo scrittore
Una spiacevole conseguenza dell’irruzione sulla scena di Quentin Tarantino sono i seguaci e imitatori. A logica, c’era da aspettarsi registi e sceneggiatori bravi a scrivere, abili nella costruzione dei personaggi e acrobatici nei dialoghi. Ascoltare per credere – solo ascoltare, senza il valore aggiunto del cast e della regia – la chiacchierata sulle mance che apre “Le iene”, il dibattito sul valore erotico del massaggio ai piedi di “Pulp fiction”, o il monologo di Leonardo DiCaprio sulla frenologia, con un teschio per dimostrare la differenza tra bianchi e neri, in “Django Unchained”. Invece siamo circondati da dilettanti allo sbaraglio che con qualche stallo messicano e molte carneficine pensano di aver risolto.
Che Tarantino sia un bravo scrittore, prima ancora che un bravo regista, è cosa nota ma non ancora universalmente riconosciuta (uno dei primi a capirlo e a raccontarlo in giro fu lo scrittore angloindiano Amitav Ghosh). Molto potrebbe fare – per convincere chi ancora porta rancore all’ormai ex giovanotto, reo di aver rovinato irrimediabilmente il bel cinema pensoso e indigeribile – il romanzo “C’era una volta a Hollywood” (La nave di Teseo editore).
Stesso titolo del film, con una trama leggermente diversa, anche nel finale. Molte scene aggiunte, Tarantino che appare sullo sfondo. Una bella passata di figaggine sul punto più basso una volta raggiungibile in libreria: non il giallo, non la fantascienza, non il rosa, non le biografie dei calciatori (oggi dei virologi e altri personaggi televisivi). L’impresentabile “novelization”. Un romanzo ricavato da un film – contro l’ordine naturale delle cose – dopo che il film aveva sbancato i botteghini ed era popolare. Si pensava potesse fare da esca per vendere libri a chi non ne aveva mai letti.
Non vale per Tarantino, che richiede un lettore complice. Rispetto al film, il romanzo “C’era una volta a Hollywood” è un universo espanso. Si capisce che potrebbe espandersi ancora, ma bisogna pur mettere un freno alla quantità strabiliante di erudizione e di filologia sfoggiata in queste pagine. Per la delizia di chi ama il cinema, e gode quando se ne parla allegramente. Senza l’orribile fardello dell’interpretazione che prende ogni dettaglio e la fa diventare un’altra cosa. Contraddicendo quel che James Ballard amava del mestieracccio: quando sullo schermo vediamo un cespuglio, siamo sicuri che è un cespuglio, non un simbolo né una metafora.
Controfigura autista e amico di Rick Dalton, Cliff Booth vive in una roulotte con un pitbull femmina di nome Brandy (anche questa amicizia ha la sua storia, il romanzo volentieri va indietro nel tempo). Ha la passione per il cinema, soprattutto europeo e meglio ancora se con le donne spogliate. Gli piace “Il dolce corpo di Deborah” e non disdegna “Riso amaro”. Sopporta poco “il ciarlatano Antonioni”, Fellini che “fa fare alla moglie stronzatine alla Charlot”, “i due babbei di ‘Jules e Jim’”, “I 400 colpi” di Truffaut con il ragazzino che prega Balzac.
Film con i sottotitoli, che appassionano poco l’attore in declino Rick: “Non vado al cinema per leggere”. La cinefilia tarantiniana viene fuori nel dilemma dell’ateo Polanski con “Rosemary’s Baby”: girò il film con sublime abilità – è lo spettatore a vedere Satana là dove il regista è più che reticente (aiuta un trailer abilmente montato). Poncho, vestiti lunghi e piedi sporchi, le ragazze di Charles Manson si esercitano nel “kreepy crawl”: sgattaiolare nelle case lasciando segni della propria presenza, senza portare via nulla. L’escalation – nella cronaca – sarà orribile. Fidiamoci del titolo da favola scelto da Tarantino per il film e per questo romanzo.