il foglio del weekend
L'affaire Lebovici
Era il padrone invisibile del cinema francese, l’editore “contro” amico di Debord. Fino al misterioso, tragico epilogo
Una delle serie televisive più riuscite degli ultimi anni non è americana, bensì francese, e si intitola: “Chiami il mio agente!”, titolo originale Dix pour cent, in riferimento alla percentuale dovuta da un artista all’agente che lo rappresenta, il dieci per cento appunto, per ogni contratto stipulato. Il mondo dello spettacolo viene osservato dall’inedita prospettiva di una grande agenzia, centro nevralgico degli affari e di tutto ciò che si nasconde dietro la realizzazione di un film o di uno spettacolo teatrale. Il nome finzionale dell’agence è l’acronimo Ask, ma gli autori si sono evidentemente ispirati alla più grande impresa di management europea nata alla fine degli anni 60, la celeberrima Artmedia (per chi, come me, fa o ha fatto parte del mondo del cinema, Artmedia rappresentava un tempio sacro. Ricordo che quando agli inizi degli anni 90 mi presentai al mitico indirizzo di rue du Paradis, intuii sin dall’ingresso che la professione di attore, qui da noi considerata con un po’ di sufficienza, in Francia è cosa seria, anzi serissima). La caratteristica che ha reso Artmedia la più importante agenzia di spettacolo europea nasce dalla gestione congiunta di attori, registi e sceneggiatori, formidabile intuizione del suo fondatore, Gérard Lebovici: l’uomo più potente e al tempo stesso più misterioso del cinema francese.
Anche al culmine della sua attività di produttore, o per meglio dire di mecenate, nel senso rinascimentale del termine, di lui si parlava poco. Cultore al limite del parossismo della riservatezza, Lebovici non appariva quasi mai in pubblico, non voleva che il suo nome figurasse nei titoli dei film, non concedeva interviste, detestava essere fotografato (esistono soltanto tre fotografie che lo ritraggono: una in smoking accanto a Catherine Deneuve, l’altra in impermeabile e cappello, scattata di soppiatto durante una passeggiata, e l’ultima sul set di un film, elegantissimo, comme d’habitude). Il suo nome non era dunque conosciuto al grande pubblico, malgrado Lebovici facesse parte di un ambiente mediaticamente sovraesposto. Fu così fino al 7 marzo 1984.
A partire da quella data, di lui si parlò quotidianamente, su tutti i giornali, a caratteri cubitali.
In un parcheggio sotterraneo della prestigiosa Avenue Foch, a Parigi, un vigilante sta facendo la consueta ronda accompagnato dal suo rottweiler. Il cane si innervosisce: accanto alla rampa di uscita, una macchina in sosta con i fari accesi ha attirato la sua attenzione. All’interno, un uomo seduto alla guida, la testa china sul volante. Non sta dormendo: ha quattro proiettili di pistola conficcati nella nuca. In tasca niente documenti ma parecchi soldi in contanti, e un biglietto stropicciato con su scritto: “François, 18.45, rue Vernet”. Sul tappetino dell’auto tre bossoli, il quarto è strategicamente posizionato sul pianale posteriore in posizione verticale. Una sorta di firma, o se vogliamo, di messaggio in codice. La sola cosa che gli inquirenti riescono a svelare in tempi brevi è l’identità della vittima, grazie ai documenti di proprietà dell’auto: si tratta di Gérard Lebovici, 51 anni, sposato, due figli, produttore cinematografico ed editore. Per il resto, come si direbbe in uno dei tanti polar prodotti da Lebovici, “brancolano nel buio”.
In effetti sembra davvero la scena di un film, l’inizio di un giallo che riserverà infinite ipotesi investigative ma nessuna soluzione (vendetta personale, delitto passionale, mafia, attentato politico, addirittura Mossad…), un cold case tuttora irrisolto, a quasi quarant’anni dai fatti. Il disvelamento dell’identità mette in moto una grancassa mediatica e getta gli inquirenti nel panico: l’uomo è legato a personalità del mondo dello spettacolo, della finanza, della politica. L’inchiesta sarà inevitabilmente sottoposta a ingerenze di ogni sorta, la stampa si scatena in congetture, offrendo piste inverosimili e quanto mai spettacolari. In una recente intervista, l’allora capo della polizia ha rivelato le difficoltà del caso, sottolineando anche la mancanza di mezzi a disposizione: non esistevano i cellulari, le telecamere di sorveglianza, l’esame del Dna e soprattutto non sussisteva un movente plausibile. “E’ vero che Lebovici, come tutti gli uomini di potere, poteva aver seminato odi e invidie, ma un omicidio ha bisogno di prove più concrete”.
Chi era dunque “l’uomo invisibile del cinema francese”, come lo definì il giornale Libération all’indomani dell’omicidio?
Senza dubbio un imprenditore di grandissimo talento. In soli quindici anni era riuscito a costruire un impero partendo dal nulla. Un uomo di fiuto e di intuizione, scaturiti forse da un’infanzia difficile segnata dal sacrificio della madre che in tempo di guerra si era consegnata ai nazisti dopo aver nascosto i due figli in un armadio. Il padre, ebreo rumeno, si era salvato per un soffio ma non aveva mai superato il trauma, tanto da morire tempo dopo “di dolore”, come sosteneva Gérard le rare volte che aveva parlato di sé con i pochi amici che frequentava. Rimasto orfano molto giovane insieme alla sorella, Gérard aveva ereditato l’attività del padre, una piccola produzione di spazzole e pennelli, ma allo stesso tempo si era iscritto in una scuola di recitazione, sua grande passione, per diplomarsi attore. Compagni di palcoscenico gli allora sconosciuti Jean-Pierre Cassel e Claude Berri, che saranno gli artefici della svolta: intuendo la mancanza di talento di Gérard nella recitazione, il futuro regista Berri suggerisce all’amico di diventare agente, Cassel si offre come primo cliente. E così, con un solo iscritto e un’unica stanza per lavorare, Lebovici inaugura la sua prima, minuscola agenzia.
Nel giro di pochissimo tempo il suo nome si afferma nel mondo del cinema. Con i primi guadagni rileva le quote di altre due agenzie e accresce la sua “scuderia”. Ora che può contare su Jean Paul Belmondo e altri attori di punta, fonda le basi di Artmedia. Ma l’incontro con una ragazza italiana, Floriana Chiampo, impegnata politicamente, e l’atmosfera contagiosa del maggio ’68 accendono un’altra scintilla: Lebovici si lascia sedurre dall’onda rivoluzionaria e decide di cavalcarla. Il 24 maggio 1968, insieme a un gruppo di amici, propone di fondare una casa editrice atipica, con lo scopo di “far ascoltare tutte le voci”. Si chiamerà Champ Libre (campo libero, che suona anche come “Canto Libero”, dato che “champ” e “chant” si pronunciano allo stesso modo), e si distinguerà per audacia editoriale e grafica innovativa. L’anno successivo Lebovici si consacra come editore contro. Pubblica Bakunin, Arthur Cravan, Orwell, Clausewitz, Ballard. Opere di critica sociale di estrema sinistra in opposizione alla sinistra tradizionale, classici dell’anarchismo, avanguardie artistiche, controcultura americana, fantascienza, marxismo… Un’attività parallela svolta quasi in sordina, l’altra metà del mondo a cui Lebovici appartiene e che paradossalmente potrebbe rappresentare il bersaglio dei suoi strali lo considera un uomo di cinema, e i successi imprenditoriali in quel settore ne confermano le innegabili competenze. Ha la capacità di convincere gli interlocutori riluttanti grazie al carisma di cui è consapevole, ne è un esempio la carriera interrotta di Alain Resnais dopo il flop del film “Je t’aime, je t’aime – Anatomia di un suicidio”: le porte delle produzioni che gli erano state sbattute in faccia furono di colpo riaperte grazie all’intervento di Lebovici che riuscì a imporre il suo protegé (che amava e stimava, era uomo di gran gusto Lebovici), e a rilanciarlo grazie al film “Stavisky il grande truffatore” con l’amico Jean Paul Belmondo. L’oramai ricco uomo di cinema coesiste in modo schizoide con il rivoluzionario editore avverso al potere. Una contraddizione che raggiunge il proprio apice con l’entrata in scena di una figura determinante per il destino di Lebovici e della sua creatura, Champ Libre: il filosofo Guy Debord, santo laico della Rivoluzione, entra a gamba tesa nella casa editrice dopo la ripubblicazione del libro che lo ha reso famoso (e che tuttora rimane un manifesto nichilista di riferimento): La società dello spettacolo, un’esplicita critica al feticismo del commercio. Secondo Debord la società capitalista del consumo impone un’illusoria “pseudo-vita” attraverso le industrie socio-culturali, vale a dire il cinema e la televisione. Lo spettacolo è dunque un’ideologia economica che promuove una visione unica della vita allontanando l’uomo dalla vraie vie, la vita vera. Una discesa verso l’alienazione.
A Lebovici Debord appare come un profeta. Quell’uomo così diverso, così profondo, lo attira irrimediabilmente. Dal canto suo, Debord si mostra all’inizio scostante, dopotutto Lebovici rappresenta il nemico capitalista da disprezzare, se non altro pubblicamente. Tuttavia qualcosa di molto intimo (corroborato anche dal comune debole per l’alcool) li unisce, il rapporto con Debord fa leva sull’indole ribelle faticosamente tenuta a bada da Lebovici e Champ Libre, come suggerisce il nome stesso, è la sede ideale per liberarla. Il cinema rappresenta invece il lavoro, il dovere. E i soldi. Lo spirito affaristico di Lebovici non viene scalfito dal fuoco rivoluzionario. Artmedia, l’altra sua creatura, diventa una sorta di sistema integrato: non solo rappresentante di attori, ma anche di registi, sceneggiatori, scrittori. Il cinema francese degli anni 70 e 80 nasce in quegli uffici. Il monopolio Artmedia metterà in conflitto Lebovici, diventato anche produttore, con le società di produzione rivali: la garanzia di poter contare su tutti i nomi più importanti del cinema, che a vario titolo facevano parte della sua agenzia, rappresenta una concorrenza sleale. Lebovici è oramai il padrone del cinema. L’antipatia e l’invidia nei suoi confronti crescono di pari passo alla diffidenza riguardo al rapporto sempre più morboso che lo lega a Debord, il quale, nel frattempo è diventato il nuovo capo editoriale di Champ Libre, facendo fuori il gruppo fondatore originario. Non solo. Lebovici decide di produrre il film tratto da La società dello spettacolo per la regia di Debord stesso (che aveva debuttato con un’opera prima che a suo modo fece scalpore, “Urla in favore di Sade”, film privo di immagini, frasi isolate tratte da testi letterari, poesie e articoli di giornale, enunciate disordinatamente sullo schermo bianco). Ne verrà fuori un prodotto che gli addetti ai lavori si rifiuteranno di definire film. François Truffaut, invitato alla proiezione nella sala appositamente acquistata dal produttore e destinata a proiettare solo ed esclusivamente le opere di Debord (fatto che fece rivoltare il mondo del cinema), scriverà a Lebovici una lunga lettera infuocata: “Questo ‘film’ non è neanche una merda perché la merda rappresenta la vita che continua. Spendi e sprechi i soldi dei tuoi attori per giocare a fare il mecenate del nulla. Ti maledico! Il tuo Debord condanna l’arte e gli artisti perché è privo di talento, come hai potuto cascarci?”.
Ma il filosofo situazionista non è il solo abbaglio di Lebovici. Qualche anno dopo, la sua passione per i ribelli si spinge oltre. Jacques Mesrine, il nemico pubblico numero uno, 39 omicidi e un numero incredibile di rapine e di evasioni (la più clamorosa avvenuta durante l’udienza di un processo in cui prese in ostaggio il giudice). Si autoproclamava il Robin Hood francese per ammantare le sue gesta di un afflato politico. L’ennesimo narcisista che colpisce il cuore di Lebovici, senza nemmeno bisogno di conoscerlo personalmente. Di lui basta l’autobiografia, scritta durante uno dei tanti soggiorni in galera, che naturalmente Lebovici pubblica con la sua casa editrice, firmando una prefazione nella quale si dichiara “onorato di aver consegnato alle stampe L’istinto di morte”. Vuole trarne un film con Belmondo, desiderio che diviene ossessione dopo l’uccisione del criminale durante un conflitto a fuoco con la polizia. Prende sotto tutela la figlia di Mesrine, Sabrina, le offre un impiego a Champ Libre. Poche ore prima di essere ucciso, Lebovici riceve tre telefonate in ufficio. L’interlocutore tace il suo nome, dice di chiamare “per conto di Sabrina”. Il produttore segna un appunto su un foglietto, comunica alla segretaria di disdire tutti gli appuntamenti e chiama la moglie per avvertirla che tarderà a cena. Lo troveranno due giorni dopo in quel parking.