La danza del Papa
Nella pièce “The White Helicopter” Michail Baryšnikov veste i panni di Benedetto XVI: ennesima prova di un umile superdivo
Lo vedo all’ingresso del veneziano Arsenale con un cappellaccio calato in testa e una mascherina nera dalla quale però fuoriesce lo scintillio dei suoi occhi azzurri. Se nessuno lo riconosce, io non ho dubbi: è Michail Baryšnikov, l’assoluto danzante in ambito accademico, poi moderno, in seguito postmoderno e ora straordinario performer-attore settantenne. Lo saluto con la manina; i suoi occhi sorridono, mi risponde allo stesso modo. Lo affianco e come se fossi in incognita, proprio come lui ha voluto essere alla prima, riuscita, Biennale Danza guidata dal coreografo britannico Wayne McGregor, mi complimento per Not Once. Nell’ipnotica video-installazione, confezionata da Jan Fabre, celebre regista e artista visivo fiammingo, il suo volto, ora coperto di strati di biacca affastellata come fosse panna montata, ora di vetri straziati da una lingua di sangue, si dissolve in un biancore che sembra sommergerlo, grazie a due enormi schermi convergenti. Riemergendo il suo intero corpo si muove con una levità mental/viscerale strappacuore, mentre la voce, ferrigna e lievemente gracchiante, diviene una melodia capace di restituire il testo di Fabre, con alti e bassi, sincopate e meste dissolvenze sino ai sussurri, sempre in inglese, tra canzoni, rumori e lunghi silenzi.
Affiancati, Baryšnikov e io camminiamo e parliamo d’altro: delle nuove leve della coreografia, della danza odierna che lui ritiene ancora troppo legata, per il grande pubblico, ai classici del repertorio, con il rischio di inchiodarne la percezione a materia da museo. “Forse bisognerebbe incentivare maggiormente la creatività dei giovani e dare loro più spazio nelle istituzioni. Non sempre la danza guarda in avanti: spesso combatte con se stessa”. Poi ritorniamo alla sua lectio magistralis su Not Once non a caso riservata ai ragazzi della cosiddetta Biennale College. Ma entrambi abbiamo fretta, così lui all’improvviso estrae il suo cellulare e mi mostra magnifici autoritratti in svolazzanti abiti pontifici. Nel congedo mi dice: “Io vado a Riga”. Sin là non avrei potuto seguirlo anche volendo. Che fare? Per un nanosecondo mi passa per la testa un pensiero che già sapevo inappropriato. Fosse mai che il suo intramontabile successo gli abbia dato alla testa e lo abbia sfogato, vestendosi da Papa, nel suo ormai professionale hobby preferito, la fotografia? Macché. Sbarazzatosi molto in fretta da divismo e autocelebrazione dopo la fuga, a 24 anni, dall’Urss di San Pietroburgo verso la libertà (sic!) americana, così ben suggerita danzando nel film Il sole a mezzanotte, Misha (questo il diminutivo confidenziale di Baryšnikov) mi stava lanciando i sassolini per raggiungere, come Pollicino, la giusta dimora di quelle nivee immagini da ministro pietrino.
Scopro da Antonio Gnecchi Ruscone, il suo affettuoso impresario-tutor per l’Italia, che per due volte ha davvero vestito i panni del Papa in The White Helicopter, dapprima pièce teatrale bloccata dalla pandemia nel 2019, poi messa in scena, ma solo a Riga, con enorme successo nel 2020 e 2021, adesso diventata un film da grande schermo e di prossima uscita.
Il mistero sembra dipanarsi: invece, quando parlo vis à vis (virtualmente) con Alvis Hermanis, l’autore lettone di fama internazionale dei due White Helicopter, s’infittisce, anzi si complica.
Prima sorpresa: il Papa a cui si è interessato il regista di teatro, d’opera, attore e drammaturgo Hermanis, dal 1997 alla testa del New Theatre di Riga, non è affatto il super mediatico Francesco Jorge Mario Bergoglio, bensì l’ex Papa emerito Benedetto XVI. Pare infatti che da quando, otto anni or sono, il 28 febbraio 2013, Joseph Aloisius Ratzinger, rinunciò al soglio di Pietro creando uno choc senza precedenti in oltre 600 anni di cattolicesimo, Hermanis non si sia dato pace. Perfetto segugio-archeologo, sin dall’inizio della carriera sedotto dalla quotidianità, e soprattutto da un passato prossimo non ancora consumato, si mise in testa di scoprire le ragioni dell’incredibile abiura. La raccolta, a centinaia, di documenti, interviste e testi non soddisfò la sua curiosità. Anzi cominciò a scartare quelle che definisce “ragioni di superficie”, come l’anzianità o la salute. Come dargli torto?
Oggi, a 94 anni, Ratzinger parla a fatica, ma è lucido e non pare proprio aver sofferto di alcuna grave malattia. Sempre più sospettoso, lo spiazzante regista degli scalpori – amato e fischiato alla Scala, ma anche all’Opéra di Parigi dove nella Damnation de Faust di Hector Berlioz il protagonista era un esplicito riferimento a Stephen Jay Hawking – iniziò a raccogliere indizi personali. Si mise in contatto con persone della Chiesa, esponenti più o meno in vista del Vaticano, prelati vicini al Renitente per giungere alla conclusione dell’esistenza di venti e forse più motivi attribuibili al gran gesto di Ratzinger. Interessante per Hermanis il momento storico vissuto da Benedetto XVI durante il suo papato: nessuna attinenza con l’epoca di Giovanni Paolo II, il suo amato predecessore. Proprio nella prima decade del terzo millennio si condensarono, infatti, i problemi di una civiltà occidentale e non solo, in rapido processo di modernizzazione. A questo cambiamento, Ratzinger, il raffinato teologo agostiniano, con le scarpe rosse rispose con un secco no; Francesco, invece, con le scarpacce da pellegrino, vi corse incontro, spalancando le braccia. Tutto proverebbe l’esistenza di un acerrimo conflitto tra due partiti, all’interno della Chiesa, di cui da tempo, credo, molti si siano accorti.
Scandali, corruzione, persino pedofilia, sarebbero, secondo Hermanis, solo semplificazioni, per carità attendibili, ma date in pasto a media dagli appetiti spesso volgari per nascondere una diatriba di ben più nobili altezze: la salvaguardia futura dell’istituzione pietrina. L’esistenza di due Papi, tra l’altro vicini l’uno all’altro (Ratzinger non è tornato nella natia Germania ma vive nell’area pontificia), quasi l’uno potesse o volesse controllare l’altro , non sarebbe che lo specchietto per allodole dell’impenetrabile chiusura vaticana, così difficile da scalfire. Eppure, frugando, frugando, il nostro regista si è imbattuto in alti e bassi prelati che devono servire Bergoglio senza essere d’accordo con lui; Francesco avrebbe un minor numero di fan in Vaticano e infatti per rispondere ai suoi nemici interni, nel febbraio scorso, avrebbe sollevato dall’incarico di prefetto della Casa pontificia Mons. Georg Gänswein, relegandolo al suo primo ruolo di (discusso e dubbio) segretario “particolare” di Ratzinger. In realtà, secondo la stampa tedesca, Bergoglio non avrebbe approvato la pubblicazione, a sua insaputa, di “Dal profondo del nostro cuore”, un testo, pubblicato in Francia nel 2020, firmato a quattro mani da Benedetto XVI e dal cardinale Robert Sarah sul celibato sacerdotale e sulla necessità di un celere ritorno alla Chiesa tradizionale. Ciononostante, mentre pare che Francesco si stia accingendo a regolare la possibile coesistenza di due Papi, è partita la controffensiva di Benedetto XVI, così ostentatamente contrario all’idea del Papa in carica di aprire le porte, almeno in Amazzonia e in America latina, ai preti ammogliatati, da meditare un ritorno al trono pontificio (caspita, che tempra!), o almeno la destituzione di Francesco.
A causa di questo inestricabile guazzabuglio fatto di “pare”, “sembra, ma non si sa”, Hermanis, che pensa da uomo di teatro e ora di cinema, ha letteralmente disprezzato The Two Popes (i due Papi), il film hollywoodiano di Fernando Meirelles, nato lo stesso anno del suo White Helicopter 1, e pure tratto da un dramma teatrale. La sua trama sarebbe lontana dalla realtà, fitta di fake news, manipolata in modo poco etico. Senza peli sulla lingua, Hermanis dichiara pure di non essere Paolo Sorrentino che a suo dire avrebbe denigrato la Chiesa in New Pope, una miniserie televisiva del 2020 creata per Sky Atlantic, Hbo e Canal+ e sequel di The Young Pope, il racconto della storia di un nuovo Papa. Sorge il sospetto che il regista del doppio White Helicopter sia molto vicino alle posizioni teologiche di Benedetto XVI. Ma lui si dichiara “non appartenente a nessuna religione”, pur coltivando un grande rispetto e una familiarità con il cristianesimo tradizionale a causa di una madre polacca cattolica e molto credente. Inoltre, egli constata che in 2000 anni di storia questa istituzione in cui sono ben celati conflitti e segreti, sia stata, nel bene e nel male, il perno della civilizzazione e della cultura europea.
Tornando a The White Helicopter 1 e 2: entrambi riportano solo testi fitti di citazioni e interviste a Benedetto XVI; nessuna libertà inventiva da parte del regista-drammaturgo. D’altra parte, secondo i cultori della poetica iperrealista di Hermanis, il regista non avrebbe rivali nella passione per l’autenticità e i documenti; sarebbe altresì campione di una scrittura teatrale fedele, “parola per parola”, alla realtà e al tempo stesso “a una fedeltà squisitamente teatrale”. Il primo titolo della pièce scenica, recitata con simultanee traduzioni in inglese, italiano, polacco, latino, tedesco, sarebbe dovuto essere The Very Last Day, davvero l’ultimo giorno precedente all’annuncio delle dimissioni dal trono pontificio; tra tormenti, dubbi e travagli, Ratzinger è ben conscio dello sconcerto che una scelta tanto radicale avrebbe creato tra cattolici e non solo. Il titolo, considerato da Hermanis “troppo noioso”, fu poi tramutato in The White Helicopter, metafora dei velivoli bianchi utilizzati dai papi che fuggono dai loro ruoli, da quelli che si spostano in luoghi non troppo lontani dal Vaticano, ma anche, in questa pièce che solleva più domande che risposte, libera interpretazione per un pubblico che può volare ovunque.
Sulla scena molto tradizionale di Kristiīne Jurjaāne, anche responsabile della confezione dei costumi, si muovono Michail Baryšnikov nei panni dell’ex Papa, Kaspars Znotinņš, il segretario particolare di Benedetto XVI, e Guna Zariņna, Suor Tabiana, un personaggio inventato, entrambi attori, questi ultimi, del New Theatre di Riga. Come Pollicino, ormai finalmente a casa, io ritrovo Baryšnikov, consapevole che il suo ritorno in Lettonia fosse dovuto al controllo della post produzione del White Helicopter 2, il film di prossima uscita. Sommergo Hermanis di una gragnola di domande: perché la scelta di Misha nei panni dell’ex Papa emerito? Per consolidare un amicizia nata a Milano durante le prove scaligere di Die Soldaten , un’opera di Bernd Alois Zimmermann? Per rinnovare l’indimenticabile Brodskij/Baryšnikov, un one man show creato nel 2015 (e rimasto in tournée per quattro anni), su misura della superstar, ma in omaggio al comune amico russo Iosif Brodskij: poeta, saggista, critico, Premio Nobel 1987 per la letteratura, scomparso nel 1996 negli States dove era emigrato? Per tenere in duttile allerta il Misha antidivo che conduce una vita normale, non può fare a meno di ripetere come un mantra: “Sono solo uno strumento, un trasmettitore, da oltre 50 anni sulla scena no stop”, ma di certo non ha bisogno di training, visto che persino nella casa di vacanza a Punta Cana, nella Repubblica Dominicana, si è costruito una sala prova? O semplicemente per le comuni origini lettoni, la nascita di entrambi a Riga: 1948 Baryšnikov, 1965 Hermanis? No no, risponde Alvis, e ha ragione. Quando faceva le sue ricerche sul Vaticano e l’ex Papa, si accorse che Benedetto XVI era una delle menti intellettualmente più sofisticate del pianeta e subito capì che l’unico performer in grado di equiparare un simile smalto e carisma non poteva essere altri che Misha.
“Baryšnikov è il papa della danza”, assicura Hermanis. “E’ una leggenda nella storia coreutica che tuttavia non tramonta, anche se l’età avanza la sua immagine è molto poetica perché il suo spirito non invecchia. Invece il suo corpo resiste, è incapace di muovesi come un tempo, esattamente come Benedetto XVI. Tuttavia, il suo nuovo modo di danzare è meraviglioso, sta creando un incredibile precedente, tra molti danzatori pure agées”. Vero, ma lui è Misha, l’assoluto danzante, à mon avis: persino in una pièce e poi in un film non certo identico ma a essa ispirato, si ritaglia momenti solo fisici. Quando Benedetto XVI si raccoglie in preghiera, lui prega con il corpo: muove passi, spinge e abbassa le braccia, mette in mostra le mani, tra le più espressive e lavorate (si dice in gergo coreutico) che mai si siano contemplate sulla scena della danza. Nel suo vocabolario, diventato minimalista, dimostra che il corpo è intimamente connesso alla nostra interiorità/spiritualità, anche se la civiltà odierna lo sta dimenticando troppo in fretta. Altra lectio magistralis, unita all’uso della voce che qui come in Brodskij/Baryšnikov propone una recitazione spesso seduta o anche sdraiata, tanto per complicare l’impegno e ostacolare la respirazione del recitante…
Tuttavia Baryšnikov non sarebbe Baryšnikov se non sapesse districarsi, con il suo corpo magistralmente formato alla danza, pure con la parola in tanti anni di cinema e teatro. Hermanis se ne è accorto quando, non avendo mai provato a fare cinema con lui, gli ha piazzato davanti le telecamere ed è rimasto stupito dalla sua bravura. Quanto ci piacerebbe vedere dal vivo Misha/ex Papa Benedetto XVI, prima o anche dopo l’uscita del film che Hermanis vede bene collocato in qualche festival di prestigio, superando lo scoglio del mix di lingue con sottotitoli diversi a seconda dei paesi in cui verrà accolto. Ma c’è un ostacolo in più: il regista iperrealista è convinto che prima ancora di The White Helicopter 1, la pièce teatrale, giungerà in Italia il suo Gorbaciov, dedicato all’ultimo presidente dell’Urss, alla sua glasnost’ (liberalizzazione, apertura, trasparenza), e perestrojka (ricostruzione) e a Raisa, la sua defunta moglie. E’ uno spettacolo cui si è dedicato subito dopo l’immersione vaticana, trovandovi straordinarie coincidenze: dall’età attuale del protagonista, 91 anni, al suo ritrovarsi, da leggenda consegnata alla storia recente, al centro di un nuovo mondo che ha provato a liberare, senza tradirne le tradizioni e infatti, nel 1991, si è dimesso dalla sua carica in netta opposizione al golpe di Boris Eltsin che ha sgangheratamente dissolto l’Urss.
A sorpresa questo Gorbaciov di Hermanis ha debuttato a Mosca, nel maggio scorso con Tschulpan Chamatowa, Evgeni Mironow, due attori del russo Teatro delle Nazioni. C’era molta attesa soprattutto tra gli attendenti di Vladimir Putin, ma questi non se ne è interessato, forse perché ben consapevole delle scarse o quasi nulle quotazioni popolari dell’ultimo presidente dell’Urss e Premio Nobel per la Pace nel 1990. O forse per una sorta di rispetto personale per Gorbaciov più volte dimostrato. Al punto che il Gorbaciov di Hermanis ha subito vinto il premio come miglior spettacolo ospite in Russia. Qui Baryšnikov non poteva essere introdotto e non lo sarà neppure nella nuova pièce dell’iperattivo Hermanis, dedicata alla Cina e a una sola ragazza che lì si ritrova, come in una giungla da esplorare. Ma il futuro del mondo, che Hermanis considera poco promettente, riserverà nuove prodezze teatrali: con Misha, naturalmente.
Politicamente corretto e panettone