venezia 2021
Pedro Almodóvar è cresciuto, ora un film sulle madri lo ha girato davvero
“Madres paralelas” apre la Mostra del cinema
"È un film sulle madri”, titolarono i giornali quando al Festival di Cannes fu presentato “Tutto su mia madre”. Era il 1999, a noi era sembrato piuttosto un film sui travestiti, con un cuore da trapianto trasportato nella valigetta frigo e il definitivo monologo contro l’autenticità: “Sono molto autentica, mi sono pagata le tette e un bel po’ di silicone distribuito tra zigomi e culo”. Il film interrompeva qualche stagione non esaltante, riportando Pedro Almodóvar al massimo della bravura (non disgiunta dal divertimento, a sua volta non disgiunto dal melodramma).
Ora un film sulle madri Pedro lo ha girato davvero. “Madres paralelas” arriva in apertura della Mostra di Venezia, che l’anno scorso aveva inaugurato il modello festivaliero in epoca Covid, e quest’anno rinsalda la posizione del direttore Alberto Barbera. Sono tornati gli americani, in cima alla lista l’attesissimo “Dune” con Timothée Chalamet e Zendaya (da “Euphoria”, le serie oggi lanciano le dive). Il tappeto rosso sarà scintillante di star, i titoli in concorso e fuori concorso sono appetitosi. “Cementing its status as a serious rival to Cannes”, scrive su Twitter Radio France Internationale.
Due donne in travaglio, la fotografa affermata Penélope Cruz e la più giovane Milena Smit, nuova musa di Almodóvar (quasi un passaggio di consegne tra le attrici). La quarantenne coglie l’ultima occasione. La ragazzina, un figlio proprio non l’aveva in programma. Le neonate devono restare qualche ora in osservazione. Poi ci trasferiamo a casa di Penélope Cruz, che ha avuto la figlia da un fascinoso antropologo forense, a metà tra un medico e un archeologo.
Entra il secondo tema, che va a intrecciarsi con la storia delle due madri e conduce Pedro Almodóvar sul terreno della guerra civile, frequentato prima di lui da ogni scrittore o cineasta spagnolo che volesse dirsi rispettabile. Non da un ex impiegato della compagnia dei telefoni con la passione per il melodramma cinematografico (tralasciamo la movida, parola ormai sempre usata a sproposito).
In “Volver” – altro film di Almodóvar, uscito 15 anni fa – le donne al cimitero lustravano e spazzavano le tombe dei loro cari. Qui non ci sono tombe: in paese si parla di una fossa comune, localizzata con precisione perché un uomo creduto morto era solo ferito, ed era tornato per raccontare. Il bisnonno di Penélope Cruz, fotografo dilettante, aveva fatto il ritratto a tutti i morti. Bisogna scavare e trovare le ossa, per dare sepoltura almeno a qualcuno dei centomila desaparecidos del franchismo (il discorso sulla memoria lo potete aggiungere da soli: “La storia non sta zitta”, recita la citazione da Eduardo Galeano alla fine del film)
Gli anni passano, i tocchi di melodramma restano, ma è un Pedro Almodóvar cresciuto, non più sull’orlo di una crisi di nervi (la parola “maturo” è qui bandita). La bimba di Penélope risulta un po’ “etnica”, occhi nerissimi e pelle ambrata. Dicono che abbia preso dal nonno, e neanche il padre (peraltro fuggitivo) la sente sua. E’ cresciuto anche Roberto Benigni, che ieri ha ricevuto il Leone d’oro alla carriera. L’altro premio alla carriera – qui si rispettano le pari opportunità, anche con il pop – andrà a Jamie Lee Curtis: figlia di Tony Curtis e Janet Leigh, grande urlatrice di terrore in “Halloween”. E vari seguiti: al Lido vedremo “Halloween Kills” di David Gordon Green, regista di piccoli film indipendenti passato all’horror.
“Un film per questi tempi”, spiega l’attrice: “il nuovo trauma è la rabbia”. Siccome i tempi restano tempi di pandemia, i posti in sala sono distanziati come l’anno scorso, e in più c’è il green pass. Magicamente incorporato nell’accredito, come le proiezioni per obbligo prenotate. Solo che quest’anno c’è più gente, tra giornalisti e pubblico. E ai varchi ieri si sono viste code presto trasformabili in assembramenti.