Venezia 2021
Tanto cinema dalla letteratura alla Mostra: meglio “Le illusioni perdute” del film da Albinati
Parlando di adattamenti, la sorte peggiore tocca al film tratto dal romanzo vincitore del premio Strega nel 2016: metà scolastico e metà orrorifico
Cultori dell’avanguardia, denigratori del romanzo ottocentesco, e nemici della Francia mettetevi il cuore in pace. Questo fine settimana alla Mostra di Venezia vince Balzac: “Le illusioni perdute” diretto da Xavier Giannoli, il regista di “Marguerite” (la cantante stonatissima convinta di non esserlo, con un marito abbastanza ricco da pagarle gli applausi; esiste un suo disco, e un’altra versione del film con Meryl Streep). Un film fedelissimo, sulla nascita delle gazzette e la critica: le cordate, gli amici che non si toccano, i nemici e soprattutto gli ex amici da distruggere, la polemica attira-pubblico (“rischia di offrire il destro a un populismo di grana grossa”, leggiamo sul Corriere della Sera: come se esistesse un populismo fine e presentabile, e come se i critici di cinema fossero al di sopra di ogni sospetto).
Altri adattamenti hanno il fiato corto. Il film di Maggie Gyllenhaal “The Lost Daughter”, tratto da Elena Ferrante, è confuso e infelice (ma la cordata “siamo donne” celebra e applaude comunque). Audrey Diwan, giornalista e sceneggiatrice prima di passare alla regia, adatta Annie Ernaux – non sta tra le nostre scrittrici preferite, va detto subito: a noi piace che si tenga la dovuta distanza tra la confessione e la narrazione. Fra tutti i titoli, sceglie “L’evento”: un aborto clandestino nella Francia del 1963. La studentessa ha 23 anni, non vuole interrompere gli studi e stentare la vita come i genitori. Il primo dottore si ritrae scandalizzato; il ferro da calza casalingo non funziona; bisogna trovare una donna che sappia fare il mestieraccio. Tutto con lentezza e senza pathos, anche nelle scene cruente. Bisognava rendere l’idea, ma non son cose che lo spettatore vuole vedere (e sentire) al cinema. La studentessa scampa il pericolo, diventerà la scrittrice che conosciamo – allora però non poteva immaginare quanto la letteratura contemporanea sarebbe diventata un reparto maternità (e dintorni).
La sorte peggiore – parlando di adattamenti – tocca a “La scuola cattolica” di Edoardo Albinati, vincitore del premio Strega nel 2016. Il regista Stefano Mordini strizza le milletrecento pagine in un filmetto metà scolastico e metà orrorifico. Sullo sfondo c’è il delitto del Circeo, fine estate del 1975. Perpetrato da ex allievi della scuola cattolica, compagni di liceo dello scrittore (il libro è costato dieci anni di lavoro, infarcito di discussioni sul bene, il male, Dio, Satana, anche la diseducazione del maschio italiano anni 70 ha un suo bello spazio).
Il regista Mordini ha sfrondato, operazione necessaria ma condotta – diciamo così – alla cieca. Nella parte scolastico-adolescenziale fatichiamo a distinguere gli studenti l’uno dall’altro (sarà pure così nella vita, ma questo è un film, lo spettatore deve sapere dove si trova). Quanto alla parte horror, la solita domanda: perché bisogna massacrare le ragazze, per sostenere la tesi che le fanciulle non si toccano neppure con un fiore? (E’ l’effetto “Racconto dell’ancella”, l’abbiamo piantato lì dopo la prima stagione). Dal film – sceneggiato dal regista con Massimo Gaudioso e Luca Infascelli – ricaviamo che la borghesia (romana, quartiere Trieste) è tutta marcia, ogni tanto qualcuno passa all’atto. Le raffinate e interminabili discussioni teologiche sul male restano nel libro mastro. Fuori concorso, questa “Scuola cattolica” vale come un popolare bigino.
Senza rete (inteso come romanzo d’appoggio) lavora Ana Lily Amirpour, mezza iraniana e mezza americana nata in Gran Bretagna. Si era fatta notare con “A Girl Walks Home Alone at Night”, storia di una vampira con il chador – “uno spaghetti western iraniano”, precisò a suo tempo la regista innamorata di Sergio Leone. Nell’ambiente, donne ne girano poche, e meno ancora con un così bel miscuglio inclusivo, quindi ha fatto carriera e ha girato a New Orleans “Mona Lisa and The Blood Moon”. Mona Lisa, ragazza capace di ipnotizzare, scappa da un manicomio di massima sicurezza. In cerca di patatine. Non si ferma davanti a nulla, polizia o piccoli criminali. Fa amicizia con Kate Hudson, qui ballerina di lap dance, madre single di un ragazzino che già usa la parola “tossico” (succede quando lo sceneggiatore dimentica che non sta parlando un’adulta woke, bensì un maschietto che ama l’heavy metal). Mona Lisa rimbambisce i clienti davanti al bancomat, ma non è un lavoro che puoi fare a lungo senza farti beccare. C’è il sangue, e la luna. Manca un film da consigliare agli spettatori che pagano il biglietto. Non tutti amano lo splatter e tra poco arriverà anche “Titane” di Julia Ducournau, fresca vincitrice della Palma d’oro, a insanguinare i sonni autunnali.
Non meno sanguinario, ma folle e spassoso, a tratti in musica, è “Last Night in Soho” di Edgar Wright (fuori concorso). Regista brillante – con il terrore del vuoto – arruola Anya Taylor-Joy (“La regina degli scacchi”) e Thomasin McKenzie (la ragazza nascosta in soffitta di “JoJo Rabbit”). Due celebrità del passato come Rita Tushingham e Diana Rigg. La Londra di oggi e la Londra degli anni 60, vicoli bui e night club. Non per tutti i gusti, e comunque serviva qualche sforbiciata.
“Il sistema per prenotare i film all’inizio era un disastro”, ha ammesso il direttore Alberto Barbera durante il tradizionale pranzo con i giornalisti (i quali, ossessionati dal titolo-civetta – da Balzac a oggi non è cambiato niente – cercano di fargli dire chi vincerà, che film preferisce, la disputa tra schermi grandi e piccoli – risposta: “Siamo professionisti, che differenza fa?”). Boxol ora funziona meglio, ma il piacere di entrare in una sala “senza averlo deciso prima” se l’è portato via il Covid. I non vaccinati (con tampone periodico) si lamentano per la discriminazione: hanno un angoletto della tessera d’accredito tagliato via. La popolazione locale, e anche questa non è una novità, guarda con crescente fastidio i festivalieri.