Venezia 2021
“Qui rido io” è esagerato in tutto fino alla caricatura. Meglio il film francese
L'antica scioltezza di Mario Martone è un ricordo, purtroppo. Se proprio un film in costume bisogna scegliere, preferiamo "Le illusioni perdute"
Intitolare “Film in concorso” un film in concorso alla Mostra di Venezia dimostra autoironia e garantisce un po’ di commedia. I registi e sceneggiatori sono Gastón Duprat & Mariano Cohn, argentini già visti all’opera in “L’artista”: l’infermiere di un manicomio fa passare per suoi i disegni di un ricoverato. Celebrati dalla critica, non li vediamo mai. Non tutto andrà a buon fine, la reputazione dei critici ne uscirà malconcia. “Official Competition” sbeffeggia il cinema: nei dieci anni trascorsi da quel film la diabolica coppia ha conquistato i divi Penelope Cruz e Antonio Banderas. Più Oscar Martinez che aveva vinto la Coppa Volpi per “Il cittadino illustre”: scrittore che torna al paese dopo il Nobel (e il borgo lo fa a pezzi).
Un miliardario vuol legare il suo nome a un film di successo. Sceglie la regista più artisticamente nevrotica, che a sua volta sceglie due attori sull’orlo di una crisi nervosa. Per opposti motivi: Antonio Banderas arriva cavalcando il suo successo, guida una macchina di lusso (con abiti e orologi di conseguenza). Oscar Martinez si presenta con il dolcevita scuro dell’artista impegnato, sotto una giacca di velluto – uguale a Matteo Salvini quando faceva campagna elettorale in Emilia Romagna. Uno viene da Hollywood, l’altro dal teatro impegnato e poverello: sono subito scintille, la regista Penelope Cruz fa di tutto per far salire la temperatura.
Durante le prove li avvolge nel domopak. Li fa recitare sotto un masso gigantesco appeso a una gru – va detto che entrambi sono così ciechi e narcisi da non accorgersi che il macigno è di cartone, come in certi film mitologici pre-effetti speciali. Chiede che portino sul set i premi finora vinti, e glieli distrugge – le lacrime e la rabbia sono vere, sotto una patina di indifferenza. Per un attimo, sembra di scivolare verso i giochi di “Sleuth”: Laurence Olivier e Michal Caine che si facevano gli scherzi. “Official Competition” frena un po’, quando arriva in zona festival, gli manca il colpo di genio alla Woody Allen in “Hollywood Ending”.
Non frena mai, quanto a napoletanità esibita e coltivata ben oltre il necessario, Mario Martone in “Qui rido io”. Vita, arte, eredi di Eduardo Scarpetta, capostipite della compagnia teatrale estesa ai figli illegittimi Eduardo, Peppino e Titina: cognome De Filippo, avuti da una nipote dalla legittima consorte Rosa. Nella Napoli tra Otto e Novecento, con i collaterali noti e meno noti: la maschera di Felice Sciosciammocca, gli spaghetti mangiati con le mani in “Miseria e nobiltà”. La tintura nera sui capelli di Toni Servillo, e la causa intentata da Gabriele D’Annunzio per una parodia intitolata “Il figlio di Iorio”. La vista degli intellettuali napoletani in tribunale strazia il cuore: sono ancora e sempre bloccati lì, al netto dei baffi e della redingote: celebrano la cultura alta e disprezzano quel che diverte il pubblico. Eccezione: don Benedetto Croce, era schierato con Scarpetta.
Tutto caricato fino all’inverosimile: il timballo servito al parentado, con un commento spiritoso a ogni porzione, sembrerà – lo speriamo per gli incassi – pittoresco al pubblico che vedrà il film al cinema da dopodomani. Per i nostri gusti, è esagerato fino alla caricatura (e non parliamo delle scene recitate sul palcoscenico). Confrontato all’altro film in costume visto alla Mostra veneziana – “Le illusioni perdute” di Xavier Giannoli, da Balzac – non c’è paragone quanto a leggerezza. Al francese crediamo, del napoletano vediamo tutta la faticosa e bozzettistica messa in scena. La scioltezza con cui Martone aveva diretto “Il sindaco del rione Sanità” – by Eduardo De Filippo – è solo un ricordo.
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