Festa del cinema di Roma
Per Quentin Tarantino, con la cancel culture “nessuno è al sicuro”
Il regista interviene a una tavola rotonda all'Auditorium: "Il cinema non è affatto morto". E sulle critiche al suo ultimo film: “Bisogna credere nei propri princìpi e non preoccuparsi che alla gente non piacciano”
Come Johnny Deep, anche Quentin Tarantino dice che con la cancel culture, “nessuno è al sicuro”. Alla 16esima Festa del Cinema di Roma, a differenza del suo collega, arriva puntualissimo all’incontro con la stampa, portandosi con sé – oltre ai jeans, le sneakers, una camicia larga a coprire i chili in più come un americano medio qualsiasi – una buona dose di simpatia e una risata contagiosa che diventa acuta quando gli si chiede di un possibile Kill Bill 3, visto che ha detto che vuole realizzare un decimo film per chiudere definitivamente con il cinema. “Chissà – risponde - È una possibilità, Vedremo”. Nel frattempo, il suo ultimo film, “C’era una volta a Hollywood”, presentato al Festival di Cannes nel 2019, non ha ricevuto critiche positive e c’è chi ha scritto (come Variety) che “il film avrebbe bisogno di un’etichetta con l’avvertimento di non aver incluso abbastanza personaggi neri e messicani e per aver ignorato completamente la tendenza alla supremazia bianca”. Altre critiche le aveva ricevute anche per Kill Bill, per Bastardi Senza Gloria, per Django Unchained e per The Hateful Eight. Insomma, un matrimonio non facile quello tra Tarantino e il politically correct. Lui se ne infischia e continua dritto per la sua strada.
“Bisogna credere nei propri princìpi e non preoccuparsi che alla gente non piacciano”, ci spiega. “Quando ho fatto Pulp Fiction (film del 1994 con cui vinse il premio Oscar per la migliore sceneggiatura e la Palma d’Oro al festival di Cannes, ndr), abbiamo ricevuto grande attenzione positiva dalla stampa, ma c'erano anche tanti critici che hanno giudicato il film in modo duro. Dicevano che io non ero speciale. Uscirono davvero tanti articoli, pezzi lunghi e complessi, tutti a parlare o a sparlare di me. Poi, però, pensai: 'Sai che c'è? Ho solo fatto un film divertente su dei gangster, ma che problemi avete?'. Ecco, io penso che non bisogna farsi prendere troppo da questo genere di cose, perché quando un film esprime lo spirito del tempo e lascia il segno, ci saranno sempre persone a cui non piacerà e reagiranno negativamente. Bisogna avere la capacità di accettare tutto questo, fa parte del dibattito. Credo che una delle conseguenze di Pulp Fiction sia la permissività scaturita degli anni Novanta. Quella permissività deve qualcosa al mio film che qualora fosse uscito quattro anni dopo, la risposta sarebbe stata molto diversa”.
Da parte sua, comunque, dice di non sopportare un film in particolare: Nascita di una Nazione di David Wark Griffith. “Uno dei principali motivi per cui non mi va giù – spiega – non è solo il razzismo insito nel film, ma anche il fatto che lo stesso ha contribuito alla rinascita del Ku Klux Klan in America. Avevano il controllo del sud degli Stati Uniti nella prima metà XX secolo e tanti neri ed ebrei furono uccisi in quei cinquant'anni. Il Ku Klux Klan non sarebbe rinato se non fosse stato per per quel film. Se pensiamo alla guerra razziale e avessimo portato Griffith a Norimberga sono certo che lo avrebbero trovato colpevole”.
Qui a Roma, ci parla anche del suo primo romanzo, che si intitola proprio come il suo film, C’era una volta a Hollywood, pubblicato da La Nave di Teseo nella traduzione di Alberto Pezzotta. “Sono cresciuto leggendo libri basati sui film che ho letto da ragazzo, addirittura leggevo romanzi tratti da film mai visti. Poi, 3 anni fa, ho iniziato a pensarci di nuovo e a rileggerli e ho deciso di fare la stessa cosa per uno dei miei film. Così ho iniziato a scrivere un romanzo basato su Le Iene fino a quando non mi sono detto: 'Ma che cazzo sto facendo? Ma ti pare che scrivo un libro del genere?' (ride,ndr). Era chiaro che dovessi farlo su C'era una volta a Hollywood. Avevo tantissimo materiale, perché avevo fatto una lunga ricerca sui personaggi per scoprire i loro tratti che non avrei poi incluso nel film. Si parla di un romanzo che esplora ed espande il mio film, ma è anche un sottogenere. È soprattutto un romanzo su Hollywood: so che ce ne sono tanti e diversi, ma volete paragonarlo al mio?”, se la ride di nuovo.
Il lockdown lo ha passato a Los Angeles con sua moglie Daniella Pick e il piccolo Leo, avuto da pochissimo. “Da allora – ci dice – le mie priorità sono cambiate”. Una volta tornato "libero", ha subito riaperto la sua sala cinematografica in città, il New Beverly, e ne ha comprata un’altra. “Il cinema, a differenza di quello che pensano molti, non è affatto morto. Dopo la pandemia, l'affluenza nel mio cinema è stata incredibile, era piena tutte le sere, ma sicuramente queste sono delle realtà di nicchia. Non so se i grandi titoli torneranno a fare dei numeri pazzeschi nel weekend di apertura. Però so una cosa: sono fortunato perché abbiamo potuto fare C'era una volta a Hollywood nel 2019. È come essere un uccello che riesce ad entrare in una finestra prima che venga chiusa scoprendo che qualche piuma è rimasta incastrata tra i vetri”.
Politicamente corretto e panettone