Alla Festa di Roma Kenneth Branagh racconta la sua infanzia in “Belfast”

Mariarosa Mancuso

Un film divertente e spensierato, anche nella tragedia. E con il tocco di un grande regista, capace di rendere attuale Shakespeare senza forzature

Per quel che ne sapevamo, Kenneth Branagh poteva essere nato su un palcoscenico dove recitavano Shakespeare. Da dietro le quinte aveva imparato l’arte e la disinvoltura necessaria per rendere il vecchio William nostro contemporaneo: ci riescono solo i grandissimi, o chi fin da ragazzino ha trafficato con “essere o non essere” e “la tragedia scozzese” (i teatranti non ne pronunciano il titolo perché porta male). Invece è nato a Belfast, e lì ha vissuto fino ai nove anni. Giocando per strada con lo spadino e il coperchio di un bidone per scudo. Fino al primo botto. Non di petardo. Era un’autobomba, come miccia uno straccio infilato nel serbatoio. Panico. Il coperchio di latta serve a mamma Branagh per proteggersi dai protestanti che vogliono scacciare i cattolici dal quartiere. L’inizio dei disordini. Dopo anni di Shakespeare e altro cinema – ha diretto “Frankenstein”, e un “Thor” pieno d’ironia, quando il supereroe con il martello si rivolge al cielo e invoca il padre Odino, gli mettono la camicia di forza – Kenneth Branagh racconta la sua infanzia. Mossa spericolata – quasi tutti inciampano – risolta con mestiere, sentimentalismo e nostalgia, un ragazzino simpatico e un nonno che muore (era malato, d’accordo, la morte si sentiva arrivare: troppe lezioni di vita e di matematica aveva dato al rampollo).

 

In anteprima alla Festa di Roma e nella sezione parallela Alice nella città, “Belfast” è un film divertente e spensierato, anche nella tragedia: neppure se sei protestante i protestanti ti lasciano in pace, vogliono soldi o impegno nel costruire le barricate e fare le ronde. Piuttosto teatrale nell’impianto – mai lo spettatore sente che al di là della strada con le case popolari c’è una città, la vediamo solo nelle panoramiche iniziali e finali.

Papà è sempre fuori per lavoro, torna a casa ogni quindici giorni. L’attore è Jamie Dornan, che frustava Dakota Johnson nelle “Cinquanta sfumature di grigio”, e successive: sarà l’Edipo del regista, ma proprio sfigura in mezzo a un cast magnifico. Mamma Caitriona Balfe, in minigonna o pantaloni a sigaretta, e nonna Judi Dench: quando le dicono che gli uomini sono andati sulla Luna, prima dubita e poi spiega che nel lato oscuro del pianeta “Lucifero appende il bastone”. Nessuno vuole andarsene da Belfast, per andare a Londra dove rideranno per il loro accento. Meno che mai il ragazzino, che ha una cotta per la ragazzina (cattolica) della porta accanto. Dopo uno scontro particolarmente cruento saliranno sul pullman. Intanto il giovane Branagh va al cinema a vedere Raquel Welch in “Un milione di anni fa”. In tv, marca Marconiphone, danno “Star Trek”.

Altro ragazzino (e altro bianco e nero) in “C’mon C’mon” di Mike Mills. Il tipo di moccioso che a otto anni dice “resilienza” e insegna agli adulti i metodi antistress. Chissà come arriveranno a pagare l’affitto gli psicologi, se i piccini delle elementari si fanno la diagnosi da soli. Joaquin Phoenix fa il giornalista radiofonico, intervista i bambini nelle varie città d’America sul futuro del nostro mondo. Tutti catastrofisti, ovvio. Peggio di Greta. Eppure qualcuno, si capisce, soltanto da poco ha una casa e mangia regolarmente. Il giornalista deve prendersi cura del figlio della sorella, il marito e padre va ricoverato in psichiatria. Il gioco preferito del rampollo – altro che storie della buonanotte – è fingersi orfano, e raccontare dettagli strappalacrime.

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