Croce e delizia
C'era una volta Sergio Leone. Un visionario tradito dalla sua America
Un progetto maledetto. L’ultimo film del regista fu il suo capolavoro ma anche la sua condanna
Se l’esistenza pare governata da un disordine imperiale, è perché non si tiene conto del fatto che il tempo è un sentimento. Sergio Leone, morto nel 1989 per un arresto cardiaco, passò diciotto dei suoi sessant’anni di vita a tentare di realizzare tra infinite vicissitudini C’era una volta in America: tanti ne erano trascorsi dall’idea originaria al momento in cui nel 1984 lo presentò al Festival di Cannes. Un’eternità. In un universo parallelo poteva andare in modo molto diverso: Leone avrebbe potuto accettare l’offerta della Paramount di dirigere Il Padrino, ma disse di no; avrebbe potuto fare cento altre cose, tra cui un film sull’assedio a Leningrado, e invece no: “Nel nostro universo non molla mai la presa su C’era una volta in America”, scrive il giornalista Piero Negri Scaglione, che all’opera più celebre del regista ha dedicato un libro da poco uscito per Einaudi, intitolato Che hai fatto in tutti questi anni. La frase viene da una battuta del locandiere Fat Moe: Noodles/Robert De Niro riappare a New York, e lui rivedendolo gli chiede cos’abbia fatto nella mole di tempo in cui non è stato lì, vale a dire da quando, trentacinque anni prima, aveva lasciato la città dopo la morte dei suoi amici e soci in affari (Noodles risponde “Sono andato a letto presto”, citazione di Proust). Ma la domanda è rivolta anche al regista, ovunque sia, e in copertina è senza punto interrogativo perché a raccontare quel grande sogno ci pensa Negri Scaglione, che a sua volta ha investito nella biografia (questo è) di C’era una volta in America dieci anni di lavoro, e lo definisce “un film esoterico, ambiguo e inafferrabile come la vita”.
Per Leone, il sogno si mette in moto mentre sta lavorando al montaggio de Il buono, il brutto, il cattivo, quando Giuseppe Colizzi, che desidera collaborare con lui, scova in un’edicola di Roma il romanzo Mano armata di Harry Grey (pseudonimo di Herschel Goldberg) e glielo fa leggere. E’ una storia di gangster ambientata in pieno proibizionismo: si dice sia il racconto autentico della vita di Grey. Qui il vero Noodles, ebreo newyorchese, scrive del suo passato da malavitoso nel Lower East Side, della banda formata con gli amici di sempre, dell’amore per Dolores (che nel film diventa Deborah), del ritorno dal riformatorio e degli anni passati a gestire una serie di speakeasy, i locali segreti in cui nella New York dell’epoca era possibile bere alcolici. Poi un giorno cambia tutto: Max, che degli amici è quello a cui Noodles è più legato (sono la vera metà l’uno dell’altro), si mette in testa di fare le cose in grande, e l’impalcatura inizia a precipitare, fino alla morte sua e degli altri membri della banda.
Il film di Sergio Leone è insieme quella cosa lì e un’altra dalla natura molto più profonda, una vicenda circolare fatta di continui salti in avanti e all’indietro; lui lo descriveva come un’autobiografia su due livelli, in cui c’erano la sua vita personale e la sua vita di spettatore di film americani. Dice Negri Scaglione: “È l’America che tutti abbiamo immaginato, alcuni sognato, della quale l’eroe (o antieroe), la sua massima espressione, è il gangster, che ci piaccia o no. Il gangster è, letteralmente, tutti noi. Da lui dipende il nostro destino”.
Leone a un certo punto definisce C’era una volta in America un progetto maledetto, ma chi lo conosce bene sa che non smette mai di pensarci: si alza la mattina e medita sul suo film, va al cinema e non bada a ciò che ha davanti perché in mente ha il suo film, gli accadono i giorni, i mesi, il tempo lineare, e qualunque cosa stia facendo, nella sua testa sta sempre girando C’era una volta in America. Poteva la vita essere sufficiente? Il libro di Negri Scaglione, frutto di un lungo lavoro di ricerca pieno d’amore, contiene molti racconti delle tante persone che contribuirono alla realizzazione di questa opera-mondo, anche tangenzialmente. C’è per esempio la testimonianza dello sceneggiatore Ernesto Gastaldi, che a Leone disse di no, no che non poteva prendere e partire per quel lavoro pazzo: doveva stare vicino ai figli piccoli e alla moglie attrice Mara Maryl, perché lei per la famiglia aveva rinunciato a recitare con Roger Vadim. “Leone sapeva che sarebbe morto presto”, racconta Gastaldi. “Mi ha detto che aveva una crepa nel cuore, una fessura minuscola, che gli avevano proposto il trapianto, all’epoca parecchio pericoloso, e aveva rifiutato”. Forse è a questo che serve, una crepa nel cuore: a sentire la morte che arriva e a infischiarsene, o meglio, a usarla come razzo propulsore e a non avere più scuse.
Lo scrittore hawaiano Kawai Strong Washburn dice: scrivi come se sapessi che un giorno dovrai morire. Vale per tutte le vite in cui si crea. La consapevolezza della mortalità, che quasi nessuno ha davvero, quando arriva costringe a fare i conti con ciò che si vuole lasciare a chi rimane. E Leone non voleva andarsene da questa terra senza aver finito C’era una volta in America. Il film viene scritto a pezzi, a più riprese: Leone chiede a Leonardo Sciascia di occuparsi della sceneggiatura, Sciascia ci pensa e alla fine rifiuta. Poi si cerca a lungo un americano. Per un periodo ci lavora Norman Mailer, ma la sua bozza viene giudicata orrenda, illeggibile, “ai limiti dell’horror”, così Leone la getta via e inizia a mettere insieme una squadra di sceneggiatori italiani. Uno di loro è Franco Ferrini, di La Spezia, giovane critico della rivista “Cinema e Film”. Sarà lui a farsi venire in mente la ragione per cui Noodles torna a New York: lo convoca la sinagoga, a riscattare le tombe degli amici morti. “Non fu una passeggiata di salute”, racconta Ferrini a Negri Scaglione, guidandoci in quel periodo concitato. Poi però: “Ho fortuna, mi viene la tonsillite. Mi metto a letto e posso pensare tranquillamente”. Ed ecco che anche un malanno diventa una gioia, e in quei giorni spesi a letto si fa strada l’idea giusta (lo spunto era stato un problema simile accaduto in famiglia, la tomba di una zia che andava spostata).
Gabriella Pescucci, costumista che ha lavorato con Pasolini, Fellini, Visconti, e ha vinto un Oscar per L’età dell’innocenza di Martin Scorsese, di Leone ricorda il senso della bellezza. “Ne ho conosciuti pochi di registi come lui. Non l’avresti mai detto, a vederlo così, un corpaccione di uomo che voleva fare il duro e forse per tanti aspetti lo era. Ma era soprattutto un esteta”. Leone convocò Pescucci qualche mese prima dell’inizio delle riprese, e lei nel libro racconta il loro primo incontro. “Mi chiamò, io andai nella villa all’Eur, sua figlia Raffaella mi portò nello studio del padre. Sergio aveva sempre un’aria molto brusca e io timidamente misi subito le mani avanti: guardi, signor Leone, si dice che sul set lei tratti male la gente. Io l’avviso: sono molto permalosa, se lei mi tratta male non mi vede più. Lui si mise a ridere”. Chi lo conobbe allora descriveva i suoi occhi come più vivi che mai. “Nei decenni che verranno la vista del Manhattan Bridge da Washington Street apparirà negli album di ricordi di ogni turista”, dice Negri Scaglione della celebre inquadratura girata a Dumbo, Brooklyn, che oggi fa da sfondo a centinaia di foto al giorno. “E’ una visione che ha avuto per primo, forse in sogno, un regista italiano, anzi romano, cresciuto a Trastevere sui 126 scalini di viale Glorioso”.
Claudio Mancini, che della più grande avventura di questo romano fu produttore esecutivo, ha raccontato: “Dopo che ho lavorato con lui non è più stata la stessa cosa. Mai più. Sergio era un gran lavoratore, un visionario, un grande bugiardo, il che non guasta mai”. Un visionario lo era sempre stato, uno che immaginava e girava tutto nella sua mente, prima che su pellicola. E a chiunque abbia visto e amato C’era una volta in America, che inizia e finisce nello stesso momento, in una fumeria d’oppio, rimane il dubbio: e se fosse tutta un’allucinazione, un viaggio onirico? Qui il tempo è, insieme al sogno, un elemento fondamentale, il cerchio che tiene unita ogni cosa. Leone spiegava che il suo era “un film tessuto sui ricordi, autunnale, girato nella notte del cinema”, e per averne prova basta soffermarsi sulla fotografia di Tonino Delli Colli, che per rispondere al desiderio di marrone e di buio del regista è giocata tutta sul seppia nell’infanzia, su colori neutri nella vecchiaia, e su tonalità nere e metalliche nell’epoca di mezzo in cui Noodles, Max e i loro amici sono gangster in piena attività.
È vero: l’autunno è sempre presente. Quanto al sognare, Leone sognava in grande, perché sapeva da quando si era messo in testa quest’idea che sarebbero serviti molti milioni di dollari, tanto che più di un produttore gli aveva detto di no. Almeno fino all’arrivo dell’israeliano Arnon Milchan, e poi della Ladd Company (finanziata dalla Warner). L’entrata in scena degli americani era la realizzazione di un grande desiderio, era la visione del regista di viale Glorioso divenuta all’improvviso viva e dorata. Fu però anche, in un certo senso, la sfortuna del film, almeno per quel che riguarda l’uscita in sala negli Stati Uniti e la crepa che da tempo attendeva nel cuore di Sergio. Quando il girato fu pronto per il montaggio, divenne chiaro che bisognava tagliare, che il regista aveva in mente una cosa troppo grande e lunga, e questa cosa andava ridimensionata. La Ladd Company voleva un film di due ore e mezza, Leone non aveva intenzione di scendere sotto le tre ore e quarantacinque minuti, anzi pensava a una versione in due segmenti di tre ore ciascuno da mandare in sala separatamente. Al montaggio si lavorò per mesi, da mattina a notte.
Il film fu presentato una prima volta a Boston, il 17 febbraio 1984, a una proiezione di prova per un pubblico campione. Si ruppe il proiettore, l’intera serata fu un disastro: Arnon Milchan la ricorda come una delle peggiori della sua vita; tornato in hotel attese le tre del mattino per poter chiamare l’Italia, spiegò a Leone che bisognava trovare il modo di salvare il film negli Stati Uniti, il regista rispose che di tagli non ne avrebbe fatti altri. Cercò di mediare anche Robert De Niro, senza risultati. Da qui la storia di C’era una volta in America prende temporaneamente due strade, una americana e una nel resto del mondo. Andò così: venne presentato a Cannes il 20 maggio dello stesso anno, nella versione voluta da Leone, lunga 218 minuti. Un trionfo, seguito da un quarto d’ora di applausi. A inizio giugno uscì invece in America, all’insaputa di Leone, in una versione di 139 minuti, cioè tagliata di un’ora e venti rispetto a quella curata dal regista (che pure era la cosa più corta a cui secondo lui si potesse arrivare). Non solo: il film era stato rimontato in ordine cronologico, e questo fu forse lo scempio da cui la crepa nel cuore cominciò ad allargarsi.
La questione del tempo, dell’andare e venire, della spirale che le tre dimensioni di gioventù, età adulta e vecchiaia costituiscono insieme a quella del sogno, era l’essenza più profonda dell’intera opera. Otto anni più tardi Milchan dirà al New York Times che era stato un grave errore: “C’era chi pensava che il pubblico americano non fosse pronto per un film così lungo. E parte della colpa è mia. Non mi sono battuto abbastanza per salvare la versione completa, ero entrato da poco in questo business. Nel resto del mondo, dove è uscita quella, i critici l’hanno definito un capolavoro. In Europa è stato un enorme successo. Sergio la versione tagliata non l’ha mai voluta nemmeno vedere”.
Il film uscì quindi una seconda volta in sala negli Stati Uniti, otto anni e mezzo dopo il debutto a Cannes. Era un modo per riparare al torto del 1984, ma anche una mossa astuta, poiché nel frattempo in quel paese il film era diventato un culto grazie alle videocassette: messe in commercio senza tagli, avevano fatto guadagnare alla Warner dieci milioni di dollari, e allora perché non riportare C’era una volta in America al cinema nella versione voluta dal regista? Quando successe, nel 1992, Sergio era già morto da tre anni. La crepa nel cuore aveva chiamato e lui l’aveva seguita nello spazio misterioso da cui era venuta. Della sua vita erano rimasti quattordici film, sette da produttore e sette da regista, la moglie Carla, i tre figli, tanti amici e collaboratori. Gastaldi, che a Negri Scaglione ha raccontato il dettaglio della crepa, dice anche che appena seppe della morte di Leone corse a casa sua con l’intenzione assurda eppure netta di discutere con lui, per l’ultima volta, di C’era una volta in America.
Un impulso simile lo racconta Joan Didion in L’anno del pensiero magico: uscendo dall’ospedale dopo la morte del marito, aveva fretta di rientrare a casa per poter parlare con lui di ciò che era appena successo. Forse queste cose accadono quando una parte di noi percepisce che il tempo lineare è solo una fandonia che ci raccontiamo, e che il tempo vero è in realtà un insieme fatto di strati e di pieghe, in cui si può scomparire per poi riapparire di nuovo. Sergio Leone questo l’aveva sempre saputo.
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