Al nuovo “The Most Dangerous Game” manca un messaggio stile “Squid Game”
Annunciato il remake del film del 1932, dopo numerosi adattamenti e variazioni di trama. Ma mancano gli ingredienti più semplici: quelli che servono per sfondare
Non è chiaro da quanto ci stavano pensando. L’annuncio del remake di “The Most Dangerous Game” non poteva accordarsi meglio con lo spirito del tempo. Siamo ancora sotto l’effetto di “Squid Game”, successo planetario che il suo creatore Hwang Dong-hyuk ha corredato di un dramma personale: crisi finanziaria, debiti, disperazione (serve sempre un risvolto umano, dire “ho immaginato la serie così perché funzionava bene” non fa simpatie).
“The Most Dangerous Game” è il racconto di Richard Connolly da cui tutto cominciò, nel 1924 sul settimanale Collier’s (fondatore, un ex seminarista che aveva avviato un pionieristico servizio di libri venduti in abbonamento). Un appassionato di caccia grossa cade da una barca, ai Caraibi, e finisce su un’isola dove un altro appassionato – il conte Zaroff, ovviamente sfuggito alla Rivoluzione d’ottobre – lo invita a una partita di caccia che promette forti emozioni. Il naufrago farà da preda, se per tre giorni sopravviverà al conte e alla sua muta di cani addestrati potrà tornarsene a casa. Anche a sforzarsi, non si trovano addentellati socio-politici: l’aristocratico è stufo dei soliti animali.
Il primo adattamento cinematografico è del 1932 con Joel McCrea e Fay Wray, la ragazza che fa innamorare King Kong (i due film sono stati girati dagli stessi registi e con la stessa troupe, la caccia tragica di giorno e lo scimmione di notte, era gente che si sentiva parte di un’industria, non di un circolo artistico). Il trailer avverte a caratteri cubitali “RUN FOR YOUR LIFE”. Se pensate possa entrarci la Grande Depressione, non è questo il film. Qui hanno fatto naufragio viaggiando su uno yacht. I poveri si sfiancano in “Non si uccidono così anche i cavalli?” di Sydney Pollack, con maratone di ballo che durano quaranta giorni e più. Magari non si vince, ma almeno si mangia.
A fuggire dal conte è una coppia, lei sopravvissuta a un naufragio precedente. Verso gli anni 70, qualcuno tra i numerosi adattamenti pian piano scivola verso la sexploitation, ragazze in fuga sempre più spogliate. In radio, nel 1943, Orson Welles ha recitato il suo conte Zaroff. In televisione, preda da cacciare era il capitano Kirk, in un episodio di “Star Trek”. “I Simpson” ne hanno ricavato uno speciale Halloween, “The Survival of the Fattest”. “The most dangerous game” (“La pericolosa partita” o “Gioco fatale”) ha avuto tante variazioni che il giochetto di legare la caccia all’uomo ai tempi moderni – quali che siano, visto che dagli anni Venti del Novecento siamo arrivati a oggi – fallisce.
Una serie con lo stesso titolo è uscita l’anno scorso: Liam Hemsworth malato terminale si offre come preda per garantire un futuro alla moglie incinta. Il nuovo film uscirà nell’estate del 2022, diretto da Justin Lee. Gli attori sono Bruce Dern, Judd Nelson, Tom Berenger e Chris Tamburello al suo debutto come attore. Finora si era distinto nei reality d’azione, il regista sfidando il pericolo lo piazza in mezzo ai professionisti. La trama ha avuto la sua ennesima variazione: a finire sull’isola dei misteri sono un padre e un figlio, il cattivo si chiama Baron von Wolf. Anche qui, i tentativi di trovare un messaggio son fatica sprecata.
Non smette invece l’accanimento contro il successo di “Squid Game”. Da parte di chi evidentemente pratica poco il cinema e la tv. Quindi si stupisce: “Perché piace tanto il calamaro?”. Poi riconosce: “Ottima messa in scena, situazioni di grande impatto emotivo, dinamiche tra i personaggi accuratamente gestite, grande suspense”. Ecco, appunto. Secondo voi con queste qualità c’è bisogno d’altro, per sfondare?
Effetto nostalgia