Il colore della libertà
La recensione del film di Barry Alexander Brown, con Lucas Till, Lucy Hale, Julia Ormond, Brian Dennehy
"A Parigi c’erano bianchi di tanti colori. Ma erano soprattutto francesi. Mi hanno detto ‘sporca negra’ per la prima volta a Nashville, ho pensato che scherzassero”. Figlia di un professore universitario e professoressa a sua volta, la ragazza parla cinque lingue. Il giovanotto bianco del sud, non ancora laureato, non riesca a staccarle gli occhi di dosso (e viene subito richiamato all’ordine dalla fidanzatina ufficiale). Siamo a Montgomery, Alabama, nel 1961. Tre anni prima Rosa Parks si era rifiutata di cedere un posto a un bianco, altri neri avevano boicottato gli autobus. Lo studente Bob Zellner deve fare una tesina sulle relazioni tra bianchi e neri, finisce in una chiesa dove predica il reverendo Abernathy. Scandalo: il preside lo invita a lasciare la scuola, assieme ai suoi compagni di bravata. “Hai morso una mela avvelenata”, lo aveva avvertito il reverendo (l’attore è Cedric the Entertainer). Ancora non sapeva che il nonno del giovane Zellner era membro attivo del Ku Klux Klan. In una scena, si toglie il cappuccio e ammonisce il nipote, che intanto ha fatto conoscenza con i Freedom Riders: bianchi che viaggiano in pullman negli stati del sud partecipando alle lotte per i divitti civili. Con loro, un americano di quarta generazione: la mamma lo mandava a scuola con un cartello: “Sono cinese, non giapponese”. La rivista Time ha collocato Bob Zellner tra le “leggende viventi”. Spike Lee figura tra i produttori.