La signora delle rose
La recensione del film di Pierre Pinaud, con Catherine Frot, Melan Omerta, Marie Petiot, Olivia Côte
Andando al cinema si imparano un sacco di cose. Per esempio: in Francia i giardinieri che si occupano di ibridi per creare nuove rose chiamano le piante di partenza “padre” e “madre”. Altro esempio: sempre in Francia, se hai un roseto e sei in difficoltà con il personale, puoi fare affidamento – per così dire – su persone in libertà vigilata o da rieducazione attraverso il lavoro. La fedina penale non è pulitissima, ma anche questo può tornare utile. La signora delle rose, alias Madame Vernet, è Catherine Frot (la barbona senza fissa dimora nel film di Claus Drexel “Sotto le stelle di Parigi”: se l’avete visto significa che avete un debole per i film francesi). Ha ereditato le serre dal padre, e viene corteggiata dal cattivo e sbruffone Lamarzelle: sta ai coltivatori di rose come le multinazionali stanno al produttore artigianale di chinotti. Le offre un contratto, e l’accesso alle rose più preziose – che secondo l’etica ormai dismessa si dovrebbero prestare agli altri coltivatori – ma lei orgogliosamente rifiuta. Lamarzelle vince premi e lei non ha i soldi per lo stand. Fortunatamente uno dei giovanotti in prova, oltre a una rosa rasa tatuata sul braccio, ha una lunga storia di furti con scasso. Gli altri due partecipano al colpo guidando una macchina scassata e tremando per “quel che potrà succedere”. E poi, rubare è una parola grossa: meglio chiamarlo prestito. I lavoratori in prova finiranno per appassionarsi agli ibridi, così funzionano i film sulle fissazioni.