dopo anni di catastrofismo
La cosa più bella di “Don't look up” è che quando arriva la fine del mondo nessuno vuole accorgersene
Quel che impressiona di più del film di Adam McKay è il rifiuto della realtà commisurabile alla indecifrabile credenza in ogni forma di irrealtà. Non è un "come eravamo" ma un "come siamo"
La cosa più bella di “Don’t look up”, Di Caprio e Blanchett a parte, quella cosa per cui tutti dovrebbero vedere questo film, è nella coincidenza tra l’arrivo della cometa che distrugge il pianeta e la fine della dieta di Kate. Certo il film è uno sberleffo all’America trumpiana del lock her up, l’occasione per una prestazione sarcastica di Meryl Streep a segnalare la fine della presidenza Usa come istituzione imperiale del mondo libero; certo è un saggio di divina penetrazione e maniacale comicità sulla deriva dell’informazione-comunicazione multimediale; certo è una tradizionale commedia romantica con lieto fine e sorprese grottesche nella tragedia: ma tutto questo, compresa la tintura sci-fiction e la citazione implicita di Stranamore, si è forse già visto o era prevedibile.
L’inedito per la nostra cultura e civilizzazione è la favola di Esopo, al lupo! al lupo!, a raccontare un mondo in cui l’apocalissi finta ma risonante, la dieta universale della benevolente custodia della madre Terra, Laudato si’ eccetera, è talmente sparpagliata nella chiacchiera logorroica sulla casa in fiamme che quando, in base a dati e rilevazioni circostanziate, si apprende della prossima fine del mondo, ecco, tutti possono far finta di non accorgersene, la storia risulta addirittura balzana, e i potenti ci giocano la solita partita del consenso, del potere e del denaro come in un ridicolo talk-show.
Solo Hollywood poteva permettersi tanto. Aveva promosso “An Inconvenient Truth” di Al Gore, predicando una smisurata e conformistica paura della fine del mondo da riscaldamento globale, tutto un modello predittivo d’allarme e niente ciccia, ora quella fine di mondo la mette in burla con metodi esoterici, rivolgendosi ai palati fini capaci di inghiottire la pillola, rendendola una cosa puntuale, precisa, un allarme vero perché documentato che esplode inutilmente, al lupo! al lupo!, in un ambiente mentale pronto a tutte le messe in guardia estreme tranne quella giusta, quella incomprensibile e ovvia, che viene dall’alto dei cieli e non dalle ciminiere delle rivoluzioni industriali ed energetiche.
Il pub, la televisione, il cellulare, la Casa Bianca, i luoghi della scienza e dei poteri forti, le combriccole evangeliche e fumate, tutto è un blob incandescente di credulità e stupidità, su tutto si stende l’ala dell’imbecillità nella forma dell’assoluto come del relativo, del dubbio come della certezza apodittica. Una ricercatrice dottoranda e un impacciato giovane astronomo scoprono e rilevano e dimostrano la realtà imminente della fine, e ad accogliere la rivelazione trovano sempre e solo un minestrone di sospettosa futilità, di strumentalità nell’uso dei dati, una specie di commedia pandemica senza il virus, ma con la cometa che si avvicina minacciosa, un Everest in caduta libera sul Pacifico pronto a annullare la specie umana. Per chi non sia un critico, ma uno spettatore nemmeno tanto esperto e avveduto, quel che impressiona è il rifiuto della realtà commisurabile alla indecifrabile credenza in ogni forma di irrealtà. In un teatro di segni che prevede solo complotti e commenti, cuoricini e like e altre dichiarazioni d’amore, va molto il correttismo apocalittico. Quando arrivano i calcoli corretti, nessuno sa veramente riconoscerli. Non è un come eravamo, è un come siamo.