Nightmare alley, il ritorno di Guillermo del Toro
Tra circhi e freaks, il nuovo film del regista messicano premio Oscar è una storia sulla credulità umana
Che altro può immaginare un regista dopo La forma dell’acqua, Leone d’oro a Venezia e molti Oscar? (con le scuse ai giurati, tutto è perdonato fino al prossimo errore). Era la storia di una ragazza e di una misteriosa creatura ghiotta di uova, per chi frequenta la vecchia Hollywood tale e quale al Mostro della laguna nera.
Guillermo del Toro fa un altro giretto nella vecchia Hollywood e pesca Nightmare Alley, diretto nel 1947 da Edmund Goulding di Grand Hotel. Una storia nerissima ribattezzata per gli spettatori italiani La fiera delle illusioni, tratta da un romanzo di William Lindsay Gresham. Lo ha tradotto Tommaso Pincio per Sellerio, e vale la lettura a prescindere dai film.
“Nightmare Alley” arriverà nelle sale italiane a fine gennaio (se saranno aperte, ora che ai conti in rosso contribuisce il rialzo dei prezzi dell’energia, è l’ultima disastrosa notizia del 2021). Pochi mesi dopo Freaks Out di Gabriele Mainetti, che aveva battuto lo stesso terreno. Fenomeni da baraccone, esibiti per le loro bizzarrie. Disadattati che danno spettacolo con i loro talenti, veri o presunti. C’è sempre qualcosa che fa sospettare il trucco, quando una bella ragazza sta seduta su una sedia elettrica mentre il complice dà la corrente. O quando viene esibita – “ma solo nell’interesse della scienza, un quarto di dollaro, prego” – una creatura non del tutto umana che azzanna galline vive.
Stufo di ruoli da belloccio, nel 1947 Tyrone Power aveva voluto per sé la parte di Stan Carlisle, giovanotto in cerca di lavoro nell’America post Grande Depressione. Lo trova in un luna park ambulante, il tipo di spettacolo che Barnum ripulirà un pochino e renderà redditizio (per le sue tasche soprattutto) mettendo in mostra gemelle siamesi, sirene e donne barbute. Prima di scandalizzarsi, sono i freak nelle foto di Diane Arbus. E un saggio francese qualche anno fa aveva paragonato il Grande Fratello alle famiglie di esquimesi messe in mostra durante le esposizioni universali (sempre “nell’interesse della scienza etnografica”, in cambio di qualche soldino).
In “Nigntmare Alley” di Guillermo del Toro, il Grande Stan è Bradley Cooper (dopo aver amoreggiato con Lady Gaga in E’ nata una stella forse anche lui cercava ruoli più estremi). “Grande” perché nel frattempo il giovanotto si è impossessato di un codice per la lettura del pensiero (leggi: un modo di scambiarsi informazioni all’insaputa degli spettatori). Mestiere altamente redditizio.
Comincia a profilarsi il tema del film: la credulità umana, senza distinzione di classe sociale, ricchezza accumulata, istruzione conseguita. Il Grande Stan impara il codice segreto, ed è lui per primo a stupirsi per il fatto che funziona. “Vedo un figlio o una figlia…”, butta lì il veggente, e subito la vittima compiacente precisa “un figlio”. Se singhiozza, è probabile che il rampollo sia morto, o almeno lontano. Il manualetto offre una via di fuga quando le cose si mettono male, e la vittima presa dai sospetti smette la complicità con il truffatore: svenire, accasciarsi al suolo come assaliti da una forza sovrumana, vedere nel futuro stanca tantissimo.
Trucchi da chiromante che il Grande Stan migliora con i moderni ritrovati della scienza, psicoanalitica e ingegneristica. Si mette in società con Cate Blanchett, strizzacervelli che registra le conversazioni con i pazienti. Lei gli rivela certi segreti, lui fa buon uso – nel romanzo – di un “proiettore per fantasmi brevettato”. Carte, sedute spiritiche, e oggi con l’internet sterminato, siamo e restiamo piuttosto creduloni.