La rivoluzione del Padrino. Cinquant'anni fa usciva il mafia-movie di Coppola che emozionò Kissinger
Le polemiche sullo stereotipo dell’italoamericano e le critiche negative furono nulla in confronto alla mania che generò, dalla moda alla musica fino al linguaggio
Il faccione severo di Marlon Brando campeggiava da giorni sulle copertine di Life e Newsweek (“Brando play a Mafia chieftain”). La premiere del film era l’evento più atteso della stagione e per l’esclusiva serata di gala, il 14 marzo del 1972, fu scelto il Loew’s Theatre di Broadway. Quel giorno un’improvvisa tempesta di neve aveva paralizzato New York, ma nessuno, tra la gente importante di Hollywood, voleva mancare all’anteprima del “Padrino”. Erano tutti ansiosi di capire se il successo formidabile del best seller di Mario Puzo, pubblicato tre anni prima e definito dalla critica americana, un “fratelli Karamazov della mafia”, sarebbe stato replicato anche al cinema. Da anni in una grave crisi finanziaria, come del resto gran parte degli studios, la Paramount si giocava tutto o quasi col “Padrino”.
Nella sua autobiografia (“The Kid stay in the picture”), Robert Evans, ex attore di scarso talento, gran playboy e in quel momento ai vertici della Paramount, ricorda così quella serata: “Quando si sono spente le luci e è partita la musica di Nino Rota ho visto tutta la vita passarmi davanti”. Coppola, invece, si era ritirato nel frattempo sulla Costa Azzurra, aspettando di capire come si sarebbero messe le cose. Due ore e cinquantasei minuti dopo, quando le luci in sala si riaccendono, Evans si ritrova davanti a un Henry Kissinger commosso, quasi in lacrime: “E’ un capolavoro, è un film che parla a tutti: non è molto diverso da quello che vedo ogni giorno a Washington”. Detto da Kissinger c’era da fidarsi.
Il successo del “Padrino”, col suo cumulo di leggende raccontate in libri e documentari, alcune vere, altre verosimili, molte improbabili, comincia proprio quella sera. Per l’after party del film si va a festeggiare al St. Regis Hotel. Le foto immortalano Evans e la sua terza moglie, Ali MacGraw, a dir poco euforici, e poi Al Pacino, James Caan, Raquel Welch, Jack Nicholson, e naturalmente Henry e Nancy Kissinger, tra fiumi di champagne e balli sui tavoli. La mafia era diventata glamour. A Parigi, per il lancio del film, organizzarono una grande spaghettata all’“Opera”, presieduta da Claude Pompidou, coi camerieri che fischiettavano celeberrimi motivi di Donizetti, Rossini, Puccini. Ah les italiens!
Un film che si apre con un uomo che dice, “I believe in America”, pronunciando la frase come un atto di fede, nell’oscurità di una stanza buia, prima di chiedere il favore di un omicidio, non poteva che toccare le corde profonde del segretario di stato americano. Kissinger fu tra i primi a cogliere nel “Padrino” non tanto o non solo una saga sulla mafia, ma una trasparente metafora dell’America. Subito Coppola gli faceva eco: “E’ un errore pensare che sia un film sulla mafia. ‘Il padrino’ è un romance su un re con tre figli. E un film sul potere. Si sarebbe potuto trattare dei Kennedy”. Ma che al posto dei Kennedy ci fossero i Corleone era secondo Marlon Brando una dimostrazione lampante del fatto che “la mafia è il miglior capitalismo che abbiamo”, come andava ripetendo sui giornali. La vera lezione del “Padrino”, casomai, è che la più grande minaccia per un uomo che accumula una fortuna sono i figli deficienti, ma all’epoca la lettura anticapitalista era assai convincente.
In polemica con Hollywood, che pure gli aveva regalato una seconda chance, nonostante nessuno avrebbe voluto ingaggiarlo, Brando preparava il terreno per il gran rifiuto del premio Oscar come miglior attore. Al suo posto manderà, Sacheen Littlefeather, nome d’arte di Marie Louise Cruz, attivista per i diritti civili dei nativi americani che promise a Brando di leggere la sua arringa, senza neanche sfiorare la statuetta, e così fece. Cinquant’anni dopo, in piena cancel culture, “diversity” e “inclusività”, la scena funziona ancora meglio: Roger Moore in smoking e Liv Ullman in abito da sera annunciano il premio. Parte il tema del “Padrino”, ma al posto di Brando, sale sul palco un’indiana americana che con gesto plateale rifiuta la statuetta, “in nome del discutibile trattamento riservato agli Indiani d’America nell’industria del cinema e nel mondo della televisione” (non poté leggere il lungo testo che aveva con sé perché gli organizzatori, conoscendo le sbrodolate del divo, le avevano tassativamente vietato di superare il minuto).
John Wayne in platea mugugnava insofferente e dovettero calmarlo. Subito dopo, salì sul palco Clint Eastwood per presentare i candidati alla miglior fotografia e alleggerì la tensione: “Bisognerebbe tutelare anche tutti quei cowboy bianchi uccisi nei western di John Ford”. Una battuta che oggi potrebbe rifare solo lui, anche se in sala non riderebbe nessuno.
Nel frattempo, protestava in quei giorni anche la “Lega per la difesa dei diritti civili degli italoamericani”. “Abbiamo fatto tanto per l’integrazione degli italiani in America, credevamo di esserci finalmente liberati di certi stereotipi”, diceva Anthony Colombo, “ma ‘Il Padrino’, col suo cumulo di falsità e invenzioni, ci riporta al punto di partenza” (Anthony Colombo era figlio di Joe Colombo, fondatore della Lega alla fin degli anni sessanta, capomafia della potente famiglia Procaci: finì crivellato di colpi da un killer afroamericano al “Columbus Circle” di Manhattan poco prima dell’uscita del film). Mentre Brando lottava contro Hollywood per una più corretta rappresentazione degli indiani d’America, gli italoamericani si indignavano per tutti quei picciotti sullo schermo. “Il Padrino” era già una grande prova generale dei futuri cortocircuiti della “suscettibilità”.
Quando si parla del “Padrino” si comincia sempre con la sfilza di nomi di registi che si rifiutarono di girarlo. L’elenco si arricchisce ogni volta: Richard Brooks, Elia Kazan, Arthur Penn, Costa-Gavras, Peter Bogdanovich, Sam Peckimpah, Sergio Leone, persino Franco Zeffirelli, magari con musiche di Mascagni al posto di Nino Rota. Ma, com’è noto, proprio l’idea di farlo girare a Coppola si rivelerà una mossa decisiva.
Oggi è difficile da credere, ma prima del “Padrino” la mafia non era un buon affare per Hollywood. Nel 1968, poco prima che la saga dei Corleone catapultasse al cinema milioni di persone, la Paramount aveva prodotto “The Brotherwood”, un poliziesco ambientato nel mondo della mafia italoamericana che si rivelò un disastro. Kirk Douglas nei panni del capomafia Frank Ginetti, con penosi baffoni neri posticci, tipo emigrato italiano in Germania, era assai poco credibile agli occhi degli spettatori. Anche tutti gli altri attori del film avevano facce wasp o da ebrei americani, nulla insomma di italiano. Il pubblico era cambiato, voleva il “realismo”, e Hollywood era rimasta indietro.
Col “Padrino” inizia quella politica editoriale dell’“appartenenza” (non puoi dire nulla sulla mafia se non sei italiano) che sarebbe poi degenerata nella nostra epoca, dove un autore bianco, ancorché non-binary, non può tradurre le poesie dell’afroamericana Amanda Gorman, e Helen Mirren viene rimproverata per aver accettato di interpretare Golda Meir perché non ebrea e priva di “jewface” (del resto, anche Camilleri scriveva che “l’unica letteratura autorizzata a parlare di Mafia dovrebbe essere quella dei verbali di polizia e carabinieri”, ma per fortuna non gli si dà retta). Bob Evans, insomma, aveva captato il revival etnico che stava attraversando la società americana. Le rivendicazioni identitarie della “jewishness”, della “blackness”, della “italianness”, reclamavano un nuovo tipo di film, quantomeno nuovi registi e attori. E qui entra in gioco Coppola. Trasformando un film su committenza in un prodotto personale, pieno di riferimenti alla propria infanzia a Little Italy, Coppola realizza il primo blockbuster “identitario” della storia del cinema, oltre che un campione di incassi che strappa il primato a “Via col vento”.
In omaggio alla propria “italianità”, “Il Padrino” è poi anche uno dei più straordinari esempi di nepotismo cinematografico. Nella scena del matrimonio iniziale, il padre di Coppola, Carmine, dirige l’orchestra, un cugino canta, vari parenti fanno le comparse. La sorella di Michael Corleone è interpretata da Talia Shire, sorella di Coppola, e c’è anche la figlia Sofia, appena nata, battezzata nel finale del film. La saga dei Coppola al cinema non sarà meno epica di quella dei Corleone. Ma questo effetto “famiglia italiana” faceva la differenza rispetto a tutto ciò che era stato prodotto sin lì a Hollywood in fatto di mafia. Sammy Gravano, detto “The Bull”, braccio destro di John Gotti, ricordava così l’incontro col “Padrino”: “Forse era una finzione, ma non per me. Era la nostra vita… E non solo i delinquenti, gli omicidi e tutte quelle cazzate, ma quel matrimonio all’inizio, la musica e il ballo, eravamo noi, gli italiani!”.
“Il padrino”, insomma, era un riferimento per tutti gli italo-americani in cerca di un’identità. Quando in una scuola di Providence, Rhode Island, si celebrarono i giorni dedicati alle etnie, gli studenti italoamericani si presentarono vestiti come i membri del clan Corleone. Da lì a bar, caffè, ristoranti, catene di negozi e pizzerie “Padrino” il passo era breve. Alle feste e ai matrimoni ormai suonavano ininterrottamente la colonna sonora del film, come un nuovo inno nazionale, più struggente, romantico, più vicino alla sensibilità degli italoamericani rispetto alla marcetta di Mameli. Allo stesso tempo, il film di Coppola aveva introdotto un nuovo gergo. Come diceva Puzo, “prima che la usassi io, nessun mafioso aveva mai usato la parola ‘padrino’ in quel senso, ora la mafia la usa, la usano tutti”.
La padrinomania scoppiò subito, ben al di là del circuito italoamericano, e coinvolse anche la moda. Andava a ruba il cappello “Stetson” indossato da Marlon Brando, si rivedevano le giacche a due o tre pezzi. Uscì anche e ebbe un certo successo, “Il gioco del Padrino”, una specie di mercante in fiera con la pianta di New York, carte, dadi, pedine, chiusi in una scatola a forma di mitraglietta. Oggi invece abbiamo i Sauvignon fatti con l’uva mafiosa dei terreni confiscati e il “miele della legalità”. Se Coppola ha inventato il “mafia-movie”, noi abbiamo inventato l’antimafia-movie, una serie interminabile di film e fiction a base istituzionale e finanziamento statale con la verità insabbiata, le infiltrazioni, le trattative, le procure, le madri coraggio e tutta l’“alluvione di retorica” di cui parlava Sciascia nel suo celebre articolo. Se dobbiamo immaginare qualcosa capace di tenere testa al “Padrino”, pensiamo casomai ai nostri grandi drammoni famigliari, a “Rocco e i suoi fratelli” o al “Gattopardo”, con tutto il problema del mondo vecchio costretto a fare spazio al nuovo (del resto, il matrimonio all’inizio del “Padrino” evoca il ballo finale del film di Visconti).
Anche in Italia il successo del film fu enorme, ma la critica alzò subito il sopracciglio. Si portava molto la lettura politica, l’analisi dell’“ambiente” e dello “sfondo sociale”. Come se “Il padrino” fosse, anziché un’epica hollywoodiana, un romanzo di Zola. Per Alberto Moravia il film era “sul piano documentario e sociologico, una completa e sfacciata falsificazione”. Per “L’Unità” era invece “una sfacciata apologia della famiglia”, intendendo non solo quella dei picciotti, ma l’“istituzione”, la famiglia borghese o, come si dice oggi, “tradizionale”.
Per il Corriere della Sera, “Il padrino” era “un film di modesta qualità, in qualche parte addirittura mediocre”. Un “rosario di ammazzamenti recitato tenendo d’occhio il fascino che il male esercita sulle folle”. Un film “sbagliato” che non aveva il “sapore di inchiesta sociale sulla mafia del romanzo” (anche se di inchiesta sociale, nel libro di Puzo, non c’era traccia). Secondo Tullio Kezich, “esaminato al di fuori del cancan pubblicitario che ne ha fatto un avvenimento mondiale”, ‘Il Padrino” non era che un “condensato di luoghi comuni sui gangster italo-americani virtuosi in famiglia e feroci sul lavoro”. Era “fiacco nel ritmo”, era “sceneggiato in maniera confusa, reticente”. Soprattutto, non nominava mai la mafia, né Cosa Nostra, né le coperture politiche del protagonista, “e spara bordate solo contro Frank Sinatra”. Kezich però non sapeva che l’assenza della parola “mafia” era frutto di un accordo tra la Paramount e la Lega di Colombo, siglato prima del film.
Ma questo mezzo secolo del “Padrino” è anche l’occasione per riflettere sulla sua debordante eredità che ormai è anche molto televisiva. I “Soprano”, naturalmente, ma anche intere puntate dei “Simpson”, “South Park”, i “Griffin”, “Law and Order” prolungano il mito della saga dei Corleone. Inutile ricordare che metà della filmografia di Martin Scorsese è un reboot del “Padrino” con gli Stones al posto di Nino Rota e molto più sangue, ritmo, esplosioni. Notissima poi la passione di Nora Ephron che infila citazioni del “Padrino” anche in una commedia romantica come “C’è posta per te”. Del resto, “leave the gun take the cannoli”, la “line” più bella della storia del cinema, forse anche più bella di “We’ll always have Paris”, l’avrebbe potuta scrivere anche lei.
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