Il foglio del weekend
Monica Vitti sapeva anche far ridere. Conversione di una stella
Altro che simbolo dell’Alienazione. L'attrice italiana è stata una grande comica. Ecco chi l’ha portata nel mondo di Sordi
Così femminile e maschile”, come bisogna dire oggi (l’ha detto a Sanremo, Drusilla Foer), Monica Vitti è stata, oltre che precoce paladina del gender-neutral, la più grande comica del nostro cinema. Ed è bene ribadirlo subito: “comica”. Volendo anche con l’asterisco o con la schwa, non avendo nulla di meno degli altri “mattatori”, Sordi, Tognazzi, Gassman, Manfredi, anche se nell’elenco viene sempre dopo. Essere comica è assai più complicato che essere intensa, o malinconica o ipnotica o struggente, ed è più preciso di “brillante”. Il discorso è un po’ sempre quello: la vergogna di ridere, l’inferiorità del comico sul tragico e il drammatico. Ma come ha scritto Mariarosa Mancuso ricordandola in questi giorni: “Il comico è una precisione, all’intensità molto collaborano gli spettatori complici”, soprattutto quelli dei festival.
I primi sintomi di comicità in Monica Vitti si manifestarono quasi subito, ben prima della grande stagione dell’Incomunicabilità e dell’Alienazione. Ancora giovanissima andava in giro con Italo Calvino per associazioni culturali a leggere Brecht, “poco prima che fosse tradotto in Italia”. “Calvino doveva avermi vista ai corsi dell’accademia, dove facevo di tutto per risultare drammatica”, ricordava in un’intervista alla fine degli anni Settanta, “ma il risultato vero era che tutti si spanciavano dalle risate quando recitavo, forse perché erano abituati alla recitazione di Gassman, che tenne alcune lezioni, e io mi ero messa in testa che mai e poi mai avrei voluto recitare come Gassman”. Erano gli anni in cui Gassman gassmaneggiava tronfio e tragico al Quirino con l’“Oreste” di Alfieri, “Pilade, sì, questa è mia reggia…Ohhhh gioia!”, pieno di lustrini d’argento, bellissimo e inarrivabile, la voce imperiosa che faceva tremare anche le poltrone in ultima fila. Non era quello che aveva in mente Monica Vitti. Era però anche impensabile, per un’attrice dell’accademia, far ridere il pubblico, a meno che con uno Ionesco o un Feydeau.
Così, di lì a breve, Antonioni ne fa l’alienata per eccellenza del cinema italiano, e Monica Vitti diventa la testimonial internazionale di quei lunghi, imperscrutabili, criptici silenzi. Emblema di questa collaborazione-relazione sarà, prima ancora che la famigerata “tetralogia”, la cupola di cemento gonfiabile “binishell”, calata nel nulla del golfo dell’Asinara, celebre residenza di villeggiatura della coppia, a forma di silenzioso uovo o bunker post-atomico, molto poco estiva, costruita appositamente dall’architetto Dante Bini (diventerà luogo d’incontro e grigliate esistenzialiste di artisti e intellettuali, da Tarkovskij a Macha Méril, prima di cadere in totale abbandono, con petizione su change.org organizzata dal Fai per salvarla dall’incuria). La cupola, insomma, coma tragica metafora della parabola dell’Alienazione (“spiacevole tema che com’è noto ha portato male a tanti che l’hanno toccato o sfiorato”, diceva Arbasino). E sull’Alienazione ironizzava anche Oriana Fallaci in una celebre intervista di quegli anni: “Me l’hanno spiegata in termini medici, me l’hanno spiegata in senso filosofico, me l’hanno spiegata in chiave marxista… ma io non l’ho capita. Lei, signorina Vitti, che è il simbolo stesso di questa parola, sia buona, sia gentile, mi dica, ma l’Alienazione, cos’è?”. Monica Vitti glissava: “E io che ne so?”. Oppure giustificava con la sua “pressione bassa”, l’insostenibile pesantezza di certe affermazioni date in pasto ai giornali (“la mattina, quando mi alzo, mi sento in fondo a un abisso”). Ah quanto eravamo moderni! Ah come eravamo eleganti e spiritosi! Come ci si prendeva poco sul serio, persino in mezzo alle turbolenze filosofiche del nostro cinema più arthouse, coi capelli che dolevano quanto o più dell’anima.
L’intervista della Fallaci è del 1963. Siamo a ridosso di Deserto Rosso, ultimo film con “l’Antonioni”, come direbbe Elide Catenacci, altra eroina vittima dell’Alienazione, celebrata nella parodia-omaggio di C’eravamo tanto amati da Scola, Age e Scarpelli. Eppure, in quei botta e risposta con la Fallaci, c’è già la “nuova” Monica Vitti. Lei che dice di amare i film western, più d’ogni altra cosa. E poi Totò, Alberto Sordi, Speedy Gonzales. Lei che schiva l’etichetta di “donna moderna” (“moderna io?! Ma se non so guidare l’automobile, se ho paura di salire in aereo”), e che sull’emancipazione femminile dà una lezione a tutte le sue future colleghe, influencer incluse: “Tra tante donne cui si chiede soltanto di sapere fare il minestrone, io mi trovo a dover lavorare di più, a dover essere più bella, più brava, più famosa, sennò mi amano di meno…però poi vogliono anche il minestrone”). Si stizzisce, Monica Vitti, quando la Fallaci dice, “lei si rende conto di non essere simpatica a molti?” Chissà che la scalata al cinema comico e nazional-popolare non abbia inizia proprio da qui. Come una rivalsa, una vendetta, la dimostrazione che tutto sì, ma “antipatica” no. E c’è poi una dichiarazione programmatica, quasi un grido di aiuto: “Se c’è una cosa che io so far bene, è far ridere. Datemi una parte comica, che faccia ridere, ridere, ridere!”
Si sa che le parti comiche per le donne non sono mai facili da scrivere, ed erano ancora più complicate in un cinema che fu in gran parte un affare di maschi, come il nostro. “Quante volte a me, gli sceneggiatori hanno detto, ‘Ma Monica mia, come faccio a scriverti delle storie? Sei una donna, e la donna che fa? Non va in guerra, non ha mestieri; vedi quanti pochi mestieri? Che cosa ti faccio fare? Soltanto una storia d’amore ti posso far fare: che fai dei figli, ti addolori, lui parte, sei disperata’”. Oppure, lui parte e lei va a cercarlo anche in campo al mondo, pur di ucciderlo e vendicarsi, come farà in La ragazza con la pistola, il primo film con la Vitti comica protagonista, nonché campione d’incassi del 1968. Il film è di Monicelli. Ma come spesso capita nella commedia all’italiana, alla base c’è un’idea e una sceneggiatura di Rodolfo Sonego, il “cervello di Alberto Sordi” (come lo chiama Tatti Sanguineti nel suo prodigioso Adelphi su Rodolfo Sonego, uno dei tre o quattro libri sul cinema italiano che chiunque dovrebbero leggere).
L’incontro con Sonego è fondamentale, anche se nessuno se n’è ricordato in questi giorni di commemorazioni. E’ Sonego che prepara il terreno comico per il successo de La ragazza con la pistola, con Il disco volante di Tinto Brass, e con un episodio di Le Bambole (“La minestra”, diretto da Franco Rossi), è lui che mette in piedi la coppia Sordi-Vitti per Amore mio aiutami, che inizialmente aveva scritto pensando a Mastroianni e Virna Lisi. “La Vitti l’avevo conosciuta quando faceva dei doppiaggi e poi, naturalmente, come diva misteriosa e musa silenziosa dei film di Antonioni”, diceva Sonego. “Subito dopo Deserto rosso, De Laurentiis le aveva fatto fare una particina ne Il disco volante, la moglie del sindaco che se la fa con l’impiegato del telegrafo, e così lei aveva scoperto la commedia, la vera aspirazione segreta della sua arte. Mi si attaccò come una medusa, non mi lasciava più vivere, voleva che io vivessi in funzione esclusivamente sua, che scrivessi solo per lei, ora che gli inglesi e Hollywood si erano decisi a chiamarla. Credo, onestamente, di averle fatto guadagnare qualche miliardo”. Giacché all’epoca di queste interviste e ricordi affidati ai posteri non si rischiava il linciaggio sui social per “mansplaining” o patriarcato, si può serenamente prendere per buona l’idea che Monica Vitti avesse finalmente trovato qualcuno capace di scriverle quei ruoli e quelle storie che le erano mancati sin lì (“la prima volta che ho sentito parlare Sonego, ho pensato a Cechov”, dirà, “c’era un contatto, perché tutte le sue storie comiche avevano sotto sempre delle ragioni molto importanti”).
La “particina” nel Disco volante di Tinto Brass è invero memorabile: Sordi e la Vitti sono chiusi in macchina nel profondo Veneto. E’ notte. Fuori piove. Per fare colpo lui prende a declamare con enfasi i versi di “Spoon River”. Lei lo ferma: “Dime porca xe me piase de più”. L’intesa era già perfetta. C’era anche la musica di Piccioni, che aggiungerà quel filo di malinconia e saudade romana ai loro film soneghiani, “Amore mio aiutami” e “Io so che tu sai che io so” (non Polvere di stelle, scritto da Sordi con Maccari e Bernardino Zapponi, più a suo agio, rispetto al partigiano Sonego, nella rievoazione dell’avanspettacolo romano). Il Disco volante e Le bambole sono due insuccessi, ma spianano la strada a La ragazza con la pistola. E’ una storia che Sonego raccoglie da un’infermiera conosciuta in Inghilterra e che lo sceneggiatore definiva “uno dei primi film ‘femministi’, che dava un certo respiro al personaggio femminile, una meridionale he parte per l’Inghilterra per uccidere un uomo e che, nel corso del viaggio si emancipa e fa altre esperienze” (poi Monica Vitti sarà femminista, agitatrice e sindacalista in un’altra storia soneghiana diretta da Dino Risi, Noi donne siamo fatte così, dove il focus dell’emancipazione si sposta dal profondo Sud alle fabbriche del Veneto industriale).
Per chi è cresciuto negli anni Novanta, abituato alle Thelma & Louise, ai western con Andie MacDowell e Drew Barrymore o alle vendette “grand guignol” di Uma Thurman in Kill Bill è difficile cogliere la novità radicale e anche la temerarietà di un film come La ragazza con la pistola.
Sonego diceva che la sua storia era stata stravolta rispetto alle intenzioni iniziali (gli sceneggiatori lo dicono spesso, per questo poi passano alla regia). Però Monica Vitti era perfetta nei panni di Assunta Patané, umiliata, disonorata ma spietata e determinata nella sua sete di vendetta che diventa romanzo di educazione alla modernità e all’emancipazione di una donna meridionale, a spasso per Inghilterra e Scozia. “Andai in Sicilia per fare un’inchiesta sulla mafia”, raccontava Sonego, “e la mafia non c’era, secondo le voci. Però invece scoprii che la maggior parte dei matrimoni si facevano dopo aver rapito la ragazza. Io ero molto amico di Michelangelo Antonioni, conoscevo Monica, ma non sapevo della sua vocazione comica”.
La vocazione comica raggiungerà il suo apice in coppia con Sordi. Alberto Sordi e Monica Vitti sono stati i nostri Katharine Hepburn e Spencer Tracy. La stessa complicità, la stessa ironia, nella vita e sullo schermo. Hanno dato vita a una formidabile “battle of sex” all’italiana capace di parlare al pubblico spernacchiante dell’Ambra-Jovinelli, come agli orfani dell’Alienazione che applaudivano l’ex musa del Maestro. E poi erano bellissimi insieme, era bellissimo vederli ridere in tv, ospiti a “Domenica In” (come molti tra coloro cresciuti tra gli anni Settanta e Ottanta, da bambino ero convinto fossero marito e moglie, e ovviamente pensavo lo stesso di Hepburn e Tracy).
I film di Antonioni l’hanno resa celebre tra intellettuali e artisti di tutto il mondo. Con i film di Sordi divenne “la più amata dagli italiani”, come dicevano i sondaggi di quegli anni che la davano in testa a tutti gli indici di gradimento, compagna sull’isola deserta inclusa, a fianco a Nilde Jotti, davanti a Rita Levi Montalcini. E in effetti è difficilissimo trovare oggi qualcuno cui non piaccia Monica Vitti, personaggio trasversale ai generi, alle quote, alle minoranze e alle maggioranze. Tutti la amano. Come tutti i “mostri sacri”, il talento, la bravura, persino la bellezza (“io mi sono fatta fisicamente così perché volevo essere fisicamente così”) furono sempre animati e sorretti da un’indomabile tigna: “Non passa giorno in cui non debba lottare per mantenermi a un certo livello, nel nostro cinema, non passa giorno in cui non legga copioni, non mi interessi all’acquisto di diritti di commedie o libri, in cui non vada al cinema. Poi, sul set, divento una buffona, ma ne sono fiera perché questa è la nostra grande tradizione di commedianti, di commedianti dell’arte che tutto il mondo ci invidia. E poi siamo o non siamo in un Paese con una realtà buffonesca?”. Dio solo sa quanto. Nell’intervista con Oriana Fallaci, Monica Vitti a un certo punto confessava che sarebbe voluta diventare come Kay Kendall (“un’attrice come lei, ecco cosa vorrei essere. Con la sua ironia, il suo spirito, il suo sottile umorismo”). Oggi in pochi si ricordano di Kay Kendall. Mentre forse, chissà, qualcosa di Monica Vitti sopravvive persino su Instagram e Tik-Tok.