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Repubblicani contro Disney. Una strana inversione delle parti
Il governatore della Florida Ron DeSantis revoca lo statuto di distretto fiscale a parte al Magic Kingdom. "Non permetterò ai woke californiani di dettare legge in casa mia". Fa un certo effetto, ci ricordiamo di quando alla premiata ditta si era tendenti un pochino a destra e sicuramente verso il perbenismo
Il buon funzionamento del Magic Kingdom di Walt Disney in Florida era garantito (secondo un articolo uscito due giorni fa sul New York Times) da 38 lobbisti al lavoro nella capitale. Da generosi contributi bipartisan, versati a democratici e repubblicani. Da cinque miliardi di tasse pagate. Dai posti di lavoro, dalle ricadute su alberghi e ristoranti, soprattutto dall’aver trasformato Orlando in una delle capitali turistiche dal pianeta: 50 milioni di visitatori all’anno, pandemia esclusa che ha picchiato duro sui bilanci.
Il Magic Kingdom era anche un distretto fiscale a sé, con il nome di Reedy Creek Improvement District. Non proprio un paradiso ma sicuramente un privilegio, concesso dallo stato della Florida 55 anni fa. Una sorta di auto gestione, che ora sta per finire. L’ha revocata il governatore Ron DeSantis, ultima mossa di una battaglia che oppone la Disney ai repubblicani. Scatterà il primo giugno dell’anno prossimo, e non è neppure sicuro che porti vantaggio a contribuenti locali (la ditta ha saputo compensare generosamente i benefici ottenuti). Ma il governatore è stato chiaro: “Non permetterò ai woke californiani di dettare legge in casa mia”.
Per gli anziani Disney – diciamo: chi è più affezionato a “La Bella e la Bestia” in animazione che alle principesse Anna e Elsa di “Frozen” – sentir definire la premiata ditta come “woke californiani” fa un certo effetto. Erano i disegni animati per tutta la famiglia, semmai tendenti un pochino a destra e sicuramente verso il perbenismo. Il fatto è che il perbenismo ha cambiato campo. I primi a muovere contro la Disney sono stati i dipendenti, spingendo a schierarsi contro la legge approvata dal governatore DeSantis, e ormai nota a tutti come “Don’t Say Gay”. Tradotto: il divieto di parlare di generi sessuali fino alla terza elementare.
Il grande capo Bob Iger – l’uomo che negli anni ha comprato la Pixar, la Marvel, la Lucas Film e la 21 Century Fox (roba da tirare fuori la vecchia battuta anti-americana: “Visitate la Disney prima che la Disney visiti voi”) – si è trovato spiazzato. “Ma come, con tutto quel che abbiamo fatto per le minoranze”. Ha elencato “Coco”, “Encanto”, “Black Panther”, “Star Trek” con una ragazza protagonista. Ha tacciato la Florida di bigottismo e ha promesso tanti personaggi fluidi in età da asilo. La comunità che si sta appropriando di tutto l’alfabeto ha gioito: “Se avessi avuto io da piccolo un modello queer a cui ispirarmi, la mia vita sarebbe stata più felice” (già, ma poi come li scrivete i romanzi con le sofferenze?).
Ritorsione fiscale a parte, non siamo tanto convinti che la Disney sia felice della wokeness forzata: invochiamo principesse fluide, ma poi si vende meglio lo strascico di Diana in “The Crown”.
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