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Il "Gattopardo" diventa una serie tv
Il capolavoro di Tomasi di Lampedusa in "trasposizione seriale". Diretto da Tom Shankland, che ha intenzione di riscoprire "tutta la modernità del racconto". Viene la tremarella
Il Gattopardo. La serie. Non è uno scherzo, è uno dei tanti progetti annunciati da Netflix Italia che ieri ha inaugurato il suo ufficio di Roma. Segno di un rinnovato impegno produttivo nel nostro paese. Non par vero: è lo stesso paese che qualche giorno addietro ha lamentato i cinema deserti. Nel resto d’Europa frequentazione e biglietti sono tornati dopo la pandemia a livelli soddisfacenti, l’Italia ancora si dibatte in gravi difficoltà.
O Netflix investe in Italia sbagliando i suoi calcoli (e prima o poi la bolla finirà per scoppiare) oppure il disinteresse del pubblico italiano per il cinema e i prodotti audiovisivi non è cosi radicato. Il problema riguarda le sale: i film e le serie che ti raggiungono sul divano di casa li guardi volentieri (dormicchiando, magari: le piattaforme hanno standard bassi). Gli italiani non hanno perso interesse per le partite di calcio, quando non si andava allo stadio. Hanno visto le partite in tv, alla Fantozzi con “una magnum di birra gelata e rutto libero”. (La canottiera no, meglio la t-shirt e ciabatte di plastica magari firmate ma con calzino).
“Il Gattopardo”, dunque. In “trasposizione seriale”, ché proprio a dire serie un po’ fa vergogna. Diretto da Tom Shankland, che ha intenzione di riscoprire “tutta la modernità del racconto”. Viene la tremarella, essendo il romanzo già moderno di suo. Vuol dire che lo faranno anche “woke” e in mezzo alla Sicilia dell’800 piazzeranno una Angelica dalla pelle color cioccolata? Come in “Bridgerton”, che sarebbe la versione moderna di Jane Austen.
Non rassicura l’etichetta di “giovane idealista”, caricata sulle spalle del nipote Tancredi (noi che siamo ragazze frivole vorremo sapere soprattutto chi sarà il fascinoso giovanotto scelto per la parte che fu di Alain Delon). Idealista? Ma se è lui che pronuncia la famigerata frase “Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”. Forse conviene smetterla con la tremarella, e abbandonarsi a un “Gattopardo” kitsch, sul modello dei “Promessi Sposi” di Salvatore Nocita, miniserie televisiva del 1989.
Nei piatti contadini dove c’era la polenta (se andava bene), stavano verdurine e altre pietanze adagiate secondo la moda di allora (ben distanziate, in dosi omeopatiche, non l’impiattamento che usa oggi, a torretta con pennacchio di erba cipollina). Sarà uno spasso vedere cosa faranno con il timballo di maccheroni. Diventerà il “potage” tanto temuto dagli ospiti di metà ottocento, che tirano un sospiro di sollievo al primo rivoletto di sugo che sbuca fumante dalla crosta?
Per fare lunghezza, sarà dato spazio a “personaggi e storie poco esplorate nel libro”. Per carità, nulla è intoccabile. Ma non avevamo mai pensato al “Gattopardo” come a un cold case con lati oscuri ancora da sviscerare.