Io e Lulù
La recensione del film di Channing Tatum e Reid Carolin, con Channing Tatum, Jane Adams, Kevin Nash
Le apparenze ingannano. Il manifesto mostra un uomo con un cane sulle spalle, in posa da pastore con la pecorella. Sbagliato, sono due ex rangers. L’uomo è Briggs, che vorrebbe tornare in missione, fanno ostacolo certe lesioni cerebrali – al momento aiuta in mensa, porta fuori la spazzatura, spacca la legna e ha per suoneria del telefono “La cavalcata delle Valchirie”. Il pastore belga Lulù ha fatto otto missioni in sette anni: sta in gabbia con la museruola, non fa avvicinare nessuno, vogliono portarla al funerale del ranger – molto amico di Briggs – che l’ha addestrata e ha combattuto con lei. “Tranquilli, il cane non muore”, garantisce il regista e attore Channing Tatum, che con il film rende omaggio a un suo cane molto amato. On the road succedono tante cose, meno prevedibili di quel che lo spettatore attende dai servizi tv e dalle notizie di agenzia che danno a Lulù della “cagnolina”. I nostri finiscono in una piantagione di canapa, da un obiettore di coscienza che spara siringhe soporifere. Poi è la volta di Portland, dove le ragazze son fuori di testa più che mai. L’uomo e l’animale – un pochino placato ma sempre imprevedibile – scroccano una notte in un albergo di lusso: nessuno osa negare una stanza gratis a due veterani. Purtroppo l’albergo è frequentato da arabi, e Lulù fa il suo lavoro: strappa il guinzaglio e aggredisce. Channing Tatum è bravo, e la sceneggiatura del co-regista Reid Carolin molto originale su un tema che non lo sarebbe.
Effetto nostalgia
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