cannes 2022
A Cannes, titoli che tirano e poi deludono e altri che fanno presagire già incassi e premi
Per il suo film, Jesse Eisenberg ha avuto una buona idea, ma la satira è frenata, vedi mai che la Hollywood woke si offenda. Invece il film tratto dalle "Otto montagne" di Paolo Cognetti con Alessandro Borghi e Luca Marinelli fa ben sperare
Ai festival viviamo di speranze e delusioni. Capita anche nella vita, sicuro. Ma The Hollywood Reporter ha una rubrica intitolata “Meanwhile, in the real world”, per ricordare agli accreditati cosa accade fuori dalla Croisette: di tutte le bolle, questa è la più maniacale. E dunque: inseguiamo da giorni il film di Jesse Eisenberg (era Mark Zuckerberg con calzini e ciabatte in “The Social Network”). Biglietti esauriti in tutte le sale, tranne fuori Cannes, al misterioso cinema Le Licorne che offre anche giochi per bambini e lezioni di ginnastica.
Il titolo era allettante, “When You Finish to Save the World”. Famiglia americana impegnata, purtroppo il figliolo sta tutto il tempo a cantare canzoncine su un social che si chiama nel film Hi Hat (i piatti della batteria). Raccoglie 20 mila follower e anche qualche dollaro. E’ l’unico che non vuole salvare il mondo. Il padre adottivo legge di continuo, libri e articoli sul suicidio degli adolescenti bianchi di famiglia benestante.
La madre (una Julianne Moore dimessa, per quanto le riesce: ciocca di capelli grigi, zoccoli, camicia fuori dai pantaloni, lavora in un rifugio per donne maltrattate. Ziggy ha 17 anni, esce dai suoi streaming per amore di una bellezza esotica che si dichiara poetessa e scrive versi sui molti colonizzatori delle isole Marshall (un giovanotto vestito da scout prima di lei ha cantato l’Internazionale, sentirla in inglese fa sempre un certo effetto).
Non vuole saperne di Ziggy. Non vuole saperne neanche la madre adottiva, che al rifugio delle maltrattate ha trovato un ragazzo meritevole da spingere verso l’università. Lui però preferisce fare il meccanico nel garage del padre – situazione ben illustrata in una vecchia vignetta di Giuseppe Novello: “Il giovanotto, obbligato dal padre agli studi classici, si alza di notte per dedicarsi ai prediletti studi di ragioneria”. Jesse Eisenberg ha avuto una buona idea, ma la satira è frenata, vedi mai che la Hollywood woke si offenda.
Denunciamo subito un conflitto di interessi – di disinteresse, per essere più precisi – con la montagna, le scalate, le vette sublimi, la dura esistenza del pastore sull’alpeggio. Eppure abbiamo letto Le otto montagne di Paolo Cognetti, premio Strega 2017, senza soffrire. La retorica era al minimo, faceva piacere una volta tanto trovare uno scrittore italiano “internazionale”: nel senso che si rivolgeva a lettori anche non romani (Cognetti è nato a Milano, prima di appassionarsi alla montagna aveva amato New York e gli scrittori americani).
Hanno diretto il film due registi belgi, Felix van Groeningen e Charlotte Vandermeersch. Lui prima lavorava da solo, e non era famoso, diciamo così, per i suoi mezzi toni. Tende piuttosto al melodramma. Il primo film era intitolato “La merditude des choses” (orribile adolescenza, gare da ubriachi nudi in bicicletta, un romanzo come riscatto). Poi “Alabama Monroe” (grande amore, tatuaggi, musica country, figlia malata) e “Beautiful Boy” (padre e figlio, droga e disintossicazione, con Timothée Chalamet).
Le duecento pagine del libro diventano due ore e mezza di film, ribaltando l’antica saggezza: “Un’immagine vale più di mille parole”. C’era la montagna da inquadrare come una diva, dal profilo migliore. Proprio quel che il giovanotto vissuto tra i monti rimprovera ai cittadini: per noi la Natura non esiste, ci sono case, prati, un rudere da ricostruire. Alessandro Borghi da un lato del tetto, Luca Marinelli dall’altro lato. Bravissimi, entrambi barbuti, amici ritrovati nelle montagne dove giocavano da piccoli, in estate: il figlio del villeggiante e il figlio del pastore. Sentiamo odor di incassi, se non di premi.