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A Cannes i cinefili duri e puri applaudono, ma il cinema è altrove
In "Mariupolis 2" l'assenza totale di narrazione è difficile da reggere, su una guerra che sta succedendo vicino a noi. E "La moglie di Tchaikovsky" è una continua rissa tra due antipatici – con attori mediocri e barbe inguardabili. Aspettiamo che vengano a salvarci gli americani
Quando c’era l’Unione sovietica stavamo bene. Poi sono arrivati gli onesti e la vita è peggiorata. Poi i più onesti ancora, e siamo conciati così”. Sono le poche parole che in “Mariupolis 2” commentano la guerra. Il resto sono esplosioni, brandine nei sotterranei, brodaglia cucinata bruciando pezzi di legno, un generatore da ricuperare. Cumuli di terra con qualche fiore, cadaveri abbandonati.
Sono immagini girate da Mantas Kvedaravicius, reporter lituano ammazzato dai russi il 2 aprile scorso, mentre fuggiva da Mariupol. La fidanzata Hanna Bilobrova ha ricuperato e montato il materiale. “Mariupolis 2”: nel 2015 il regista aveva girato un altro film sulla vita in città. Voleva ritrovare le persone intervistate, ha trovato macerie, fame, la chiesa occupata da ostinati che discutono con il prete: “E’ Dio che ci salva, o sono le mura che resistono?”.
L’impatto con la guerra senza il filtro dei telegiornali (e il vezzo di piazzare un giocattolo sulla case distrutte) non ha appassionato i festivalieri, che hanno abbandonato a poco a poco la sala. L’assenza totale di narrazione è difficile da reggere, su una guerra che sta succedendo vicino a noi. Non c’era la rassicurante voce fuori campo, purtroppo anche i sottotitoli a volte latitavano.
Sul fronte russo – ma molto dissidente, il regista era contrario all’annessione della Crimea ed è stato agli arresti domiciliari, prima di scappare in Germania – c’era in concorso Kirill Serebrennikov. “La moglie di Tchaikovsky” ha tra i finanziatori Roman Abramovich, e su questo si dibatte, senza accalorarsi troppo. Vìola o no le sanzioni? E se il miliardario decidesse di investire nel cinema i soldi incamerati vendendo il Chelsea?
Parlando di cinema, Abramovich ha bisogno di consigli. Il breve e infelice matrimonio di Tchaikovsky è illustrato in un continuo flou, una nebbiolina da vecchie fotografie, bluastre o seppia. La moglie Antonina Miliukova si innamora a prima vista, appena fatte le presentazioni. Finge di volersi iscrivere al conservatorio, manda lettere appassionate e minaccia il suicidio, se il compositore non la sposerà.
L’insistente corteggiatrice fa sapere di avere una piccola dote. Tchaikovsky sempre a caccia di quattrini finirà per cedere – facendola però vestire di nero per la foto ufficiale. I soldi non ci sono, l’amore neppure, il sesso neanche a pensarlo – Tchaikovsky preferiva i giovanotti, Ken Russell aveva già raccontato tutto in “L’altra faccia dell’amore”, mezzo secolo fa. Classico film da festival, che qui nasce e qui muore, i cinema non li vedrà. Una continua rissa tra due antipatici – con attori mediocri e barbe inguardabili. Non si parteggia per nessuno. Neanche per la musica, totalmente assente nelle due ore e mezza: il compositore non è mai al lavoro, sempre perso in gozzoviglie.
Sta in quota russa – ma nella Quinzaine des Réalisateurs, con l’onore dell’apertura – anche Pietro Marcello con “Le vele scarlatte”, tratto da un romanzo di Alexander Grin uscito nel 1923. Produzione e attori francesi, però: il regista che aveva massacrato Martin Eden di Jack London torna in formato esportazione. Anche stavolta, il cinema sta da un’altra parte. Anche stavolta i cinefili duri e puri applaudono – chissà dove si sono nascosti a singhiozzare fantozzianamente, quando “Il” Festival ha dato la Palma d’oro onoraria a Tom Cruise, con frecce tricolori blu bianco e rosso a oscurare il cielo.
La prosa dei fan si fa più contorta, vedere brutti film fa male anche a loro: “La visione è ancora frutto di una procedura teorica, di un’osmosi che lascia palpitare il segno”. Il regista Pietro Marcello da Caserta trova il film “profondamente femmina”. Una ragazzina parla con i rospi, nella Francia su al nord, dove si torna dalla guerra e a malapena c’è da mangiare.
Finora il film più originale del concorso è stato “EO” – da pronunciarsi “hi ho”, come il raglio dell’asino. Regista Jerzy Skolimowski, polacco di 84 anni. Nessuno glieli darebbe, abituati come siamo ai giovani registi che lasciano indovinare la loro età, anno più anno meno. “EO” racconta un asino in un piccolo circo, liberato da animalisti infuriati. Il poveretto, senza più padrone né riparo né fieno, si avventura nel vasto mondo.
E’ un rarissimo film che sullo schermo esce meglio che nel riassunto della trama (di solito scritto dal regista medesimo, mischiato a buone intenzioni e suggerimenti interpretativi). L’asino fa da mascotte a una squadra di calcio che quando perde lo bastona. Lo vediamo tra i bambini autistici, si chiama “onoterapia”. Viene venduto come carne da salame, e poi salvato da uno strano prete (non durerà). Pubblico in ambasce, si torturava le mani come mai capita con i film di guerra, vera o ricostruita: gli umani si maciullano ma gli animali non si toccano.
Dopo pochi giorni di festival, aspettiamo che vengano a salvarci gli americani. “Armageddon Time” di James Gray ruba le parole a un comizio elettorale di Ronald Reagan, o votate per me o arriverà la fine del mondo. Come “Licorice Pizza” del quasi coetaneo Paul Thomas Anderson, è un film di formazione. Purtroppo, riuscito meno bene. Il figlio di una famiglia americana di origine ebraica stringe amicizia con un ragazzino nero, e si mette nei guai. Per punizione, lo mandano nella scuola privata finanziata dal padre di Donald Trump. “Licorice Pizza” era scatenato e divertente, “Armageddon Time” è preoccupato per il nostro destino. Speriamo che James Gray torni presto alla sua Little Odessa, dove ambientava i film quando era bravo.
Politicamente corretto e panettone