l'edizione n. 75
Vincitori e vinti a Cannes 2022
Venti contrari e precedenti segnano la sfida per la Palma d’oro. Con qualche sorpresa
Vincere una Palma d’oro a Cannes è anche questione di venti contrari e di precedenti. I venti contrari spingono nelle ultime posizioni i film americani. Fa eccezione quest’anno “Armageddon Time” di James Gray: tanto chiaro nel suo disegnino morale che sta in cima al conteggio delle stellette. Dopo di lui arriva il ciuco di Jerzy Skolimowski, titolo “EO”: faceva un numero al circo, liberato dagli animalisti per poco non diventa carne da salame (polacco).
I precedenti giocano contro Valeria Bruni Tedeschi e il suo bellissimo film “Les Amandiers”. Già l’anno scorso ha vinto una donna, Julia Ducournau con “Titane”. Spike Lee presidente della giuria aveva spiegato ai perplessi: “E’ la prima volta che vedo un film dove una donna fa l’amore con una Cadillac”. E aveva già vinto la Francia: Valeria Bruni Tedeschi, a dispetto dell’orgoglio patriottico già schierato per l’annessione, è per spirito e formazione una regista francese. In questo film più che mai: celebra la scuola di Nanterre – Les Amandiers – dove ha studiato, regnante Patrice Chéreau.
La selezione all’entrata era durissima, e né Chereau (l’attore Louis Garrel, che si era allenato recitando lo scostante Jean-Luc Godard) né il direttore della scuola Pierre Romans avevano un buon carattere. Né da sobri né da strafatti, erano gli anni 80 tra siringhe e Aids. Valeria Bruni Tedeschi lascia la crudele ironia che aveva sfoderato nei film precedenti, sempre nutriti di autobiografia: a vent’anni si prende tutto sul serio. Sta incollata ai suoi scombinati personaggi – tanti e spesso ammucchiati, negli esercizi di improvvisazione, negli amori, nella trasferta a New York per vedere da vicino l’Actors Studio, nelle prove.
La regista ha studiato i film di John Cassavetes, e dirige splendidamente i suoi attori che sprizzano energia. In cima alla lista, nella parte della giovane Valeria Bruni Tedeschi – bohémienne che a casa ha il maggiordomo per servirle la colazione e rispondere al telefono – la bravissima biondina Nadia Tereszkiewicz. Ultimo pregio, non meno notevole: raramente un film sul teatro ha mostrato quanto antipatici possano essere i teatranti, e quanto il mestiere sia ingrato.
La giuria presieduta da Vincent Lindon l’impegnato (dev’essere un risarcimento per l’esibizione da pompiere nudo in “Titane”) potrebbe orientarsi verso i film delle periferie. Per esempio “Holy Spider” di Ali Abbasi, che racconta l’Iran come il paradiso dei serial killer. Se uccidi una ventina di prostitute in tribunale puoi difenderti dicendo che l’hai fatto per ripulire dal vizio la santa città di Mashhad.
Il popolo applaude, tuo figlio racconta nelle interviste come hai strangolato le poverette e come hai avvolto i cadaveri nel tappeto di casa. Sempre che ti acchiappino, qui per incastrarlo arriva in città una giornalista. Prende una camera in albergo (con qualche difficoltà, viaggia sola), si trucca e si espone come esca. Da varie storie vere, accadute nel nord dell’Iran.
Altri delitti al Cairo, dentro l’università al Azhar. Il regista Tarik Saleh (mezzo europeo, come Ali Abbasi) voleva rifare “Il nome della rosa” nella capitale dell’islam sunnita. Il Grande imam è morto, bisogna farne un altro, uno studente muore pugnalato nella moschea. Aveva da poco fatto amicizia con un nuovo allievo, figlio di un pescatore che puniva il sospetto di sigaretta con punizioni corporali. Sarà arruolato come spia, il governo ha un suo candidato e manovra contro gli imam dalla doppia vita. Il ragazzo è troppo ingenuo per capire davvero cosa succede, verrà brutalmente scaricato dopo aver rischiato la vita in cima al minareto.
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