La premiere di "EO" (LaPresse) 

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La selezione di Cannes riesce meglio di quanto sperato

Mariarosa Mancuso

Era difficile immaginare la magnifica follia di Skolimowski, che ha girato “EO” su un asino liberato dal circo. Era difficile immaginare l’ottima scrittura e regia di “Leila’s Brothers” di Saaed Roustayj. Era facilissimo, al contrario, prevedere l’inutilità di “Pacifiction”, regia di Albert Serra, creatura del Festival di Locarno. Ma cinefili hanno pane per i loro denti

I pronostici a Cannes sfiorano la divinazione. Secondo i cacciatori di segni, conta perfino il giorno in cui i film sono passati in concorso. Mai troppo presto: il festival dura dodici giorni, forse anche la giuria che vede 21 film ha la memoria cedevole (ogni presidente decide i ritmi di lavoro: chi discute i film a uno a uno, chi aspetta di averli visti tutti per aprire il dibattito). La fine porta piuttosto bene: “Rosetta”, Palma d’oro degli allora sconosciuti Dardenne, fece scattare il passaparola l’ultimo giorno, con le valige quasi fatte. 

Tra gli ultimi arrivi, ben avviato verso la Palma d’oro e già ricco di molte stellette, c’è “Close” di Lukas Dhont, belga delle Fiandre. Trentun anni – il più giovane in concorso – già al suo secondo Cannes. Nel 2018 aveva portato “Girl”: un ragazzo che si sente femmina, scuola e genitori lo assistono. Vuole fare la ballerina classica, e purtroppo la transizione non va abbastanza veloce per i suoi progetti (finale cruento, ma il film è stato adottato dalle comunità Lgbtq+).  

“Close” ha fatto piangere, sembra che i festivalieri non aspettassero altro (fa la sua parte anche la mancanza di sonno). Racconta Leo e Rémi, due ragazzini che vanno insieme in bici, dormono insieme, fanno la lotta, fingono avventure meravigliose con spade di legno – nelle campagne delle Fiandre non ci sono cellulari. Nella nuova scuola siedono vicini, con gesti di tenerezza che incuriosiscono: “Ma siete una coppia?”. “Anche voi ragazze vi state sempre addosso”, rispondono senza convinzione. 

Leo si allontana, entra nella squadra di hockey, distrugge le fantasticherie sugli eroi (“nessuno ci insegue, non è vero niente”). L’elaborazione del lutto, il senso di colpa, un sospetto di omosessualità stanno al centro del film, scandito dalla coltivazione e raccolta dei fiori, Rémi viene trovato morto nella sua stanza. Sguardi sfumature e delicati sentimenti. Ma almeno il regista ha abbandonato il tremendo filtro color caramello del primo film. 

Possiamo sempre contare sul giapponese Hirokazu Kore’eda per una famiglia sopra le righe. Abbiamo avuto bambini scambiati in culla (famiglia ricca e famiglia povera, la più classica delle favole nel Giappone contemporaneo). Una trovatella adottata da quella che sembra una famiglia, e risulta un’associazione di piccoli criminali  che si finge tale per passare inosservata. 

Dimenticata l’infelice esperienza parigina di “La Verité”, arruolato da Juliette Binoche e Catherine Deneuve, il Kore’eda ha girato “Broker” in Corea, con l’attore di “Parasite” Song Kang-ho. Ha una lavanderia, arrotonda vendendo neonati. Esiste uno sportello per consegna anonima, ma il pupo è stato lasciato in strada con un biglietto: “Tornerò a prenderti”. Il nostro sa per esperienza che chi lascia messaggi non torna mai, cerca genitori adottivi e paganti. Ne viene fuori una quasi commedia: il bambino non ha le sopracciglia e gliele disegnano con la matita. La madre si rifà viva. Un altro orfanello si aggiunge. Niente giudizi né morale, con un finale raffazzonato.

In un brutto momento – sempre parlando di pronostici festivalieri, si era appena all’inizio – è arrivato “Triangle of Sadness” di Ruben Östlund che nel 2017 aveva vinto con “The Square”. Un regista contemporaneo: i molto ricchi, i molto poveri, gli influencer, i modelli maschi. Perla rara in una selezione che tutto sommato è riuscita meglio di quel che appariva sulla carta. Era difficile immaginare la magnifica follia di Jerzy Skolimowski, che ha girato “EO” su un asino liberato dal circo dove aveva carote e affetto. Era difficile immaginare l’ottima scrittura e regia di “Leila’s Brothers” di Saaed Roustayj: fratelli scombinati a Teheran, ascensori trasparenti da una parte e dall’altra montacarichi arrugginiti, la figlia femmina cerca di impedire investimenti truffaldini.

Era facilissimo, al contrario, prevedere l’inutilità di “Pacifiction”, regia del catalano Albert Serra. Creatura del Festival di Locarno, dove ha vinto un Pardo d’oro con “Storia della mia morte”: un film dove Casanova incontrava Dracula – ma non succedeva niente lo stesso. 

“Pacifiction” si prolunga per quasi tre ore, credendo di essere Graham Greene. Un funzionario francese a Tahiti vede gente e fa cose, gli indigeni parlano senza sottotitoli. Se niente ha senso, beviamoci un cocktail con l’ombrellino per dimenticate gli esperimenti nucleari e il colonialismo. A Variety hanno gettato la spugna, loro che di solito scrivono chiaro, annunciando un film “sul niente e sul tutto”. I cinefili hanno trovato pane per i loro denti.

Fargli vincere la Palma d’oro sarebbe una pessima mossa per un festival che cocciutamente insiste sulle sale e sulla loro importanza per il buon funzionamento della macchina (qui la parola Netflix non si pronuncia). Poi allontana gli spettatori in nome dell’Arte. Presunta, è fuffa in pacchetto regalo. “Triangle of Sadness” sarebbe una scelta più felice per un cinema in cerca di spettatori, ma due Palme in cinque anni paiono troppe. Ci sarebbe lo scatenato “Les Amandiers” di Valeria Bruni Tedeschi, azzoppato dal conflitto di interessi: nel cast c’è Suzanne Lindon, figlia di Vincent Lindon presidente della giuria.

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