il foglio del weekend
I bronzi di Hollywood
Meglio Brad Pitt o Tom Cruise? Sono loro le ultime vere star, salvano il mondo e anche il botteghino in affanno
Verso la fine del secolo scorso, un giovanotto con perfetti addominali si intrufolò nel letto di una donna in fuga dal marito manesco. Più che consenziente: l’autostoppista l’aveva stordita di sorrisi, tradotti volevano dire: “Che imbecille tuo marito, dovrebbe stendere tappeti di fiori dove cammini”. Sorrisi e addominali sparirono assieme a 4.000 dollari che la fuggiasca teneva sul comodino del motel. Tutte le signore e signorine pensarono in cuor loro che erano soldi spesi bene, molto bene.
Il giovanotto era uno sconosciuto Brad Pitt, trent’anni ancora da compiere e solo qualche particina in curriculum. Nel 1991, “Thelma e Louise” di Ridley Scott lo proiettò nella categoria “quanto costa? me lo compro”. Il quasi coetaneo Thomas Cruise Mapother IV – in arte Tom Cruise – aveva già girato il generazionale “Risky Business”. Titolo-aiutino per gli spettatori italiani, comprensivo di puntini pateticamente spiritosi: “Fuori i vecchi… i figli ballano”: era il 1983, né i boomer né il cringe sono un’invenzione recente.
Prima di arrivare al 1991, nel curriculum di Cruise compaiono “I ragazzi della 56a strada” di Francis Ford Coppola, “Il colore dei soldi” di Martin Scorsese (il sequel di “Lo spaccone”, giovane promessa del biliardo accanto al veterano Paul Newman), “Rain Man” di Barry Lewinson, “Nato il 4 luglio” di Oliver Stone. “Top Gun” è del 1986, quando Brad Pitt ancora non aveva messo piede su un set, aveva lasciato l’università dove studiava giornalismo, tirava avanti vestendosi da gallinaceo per l’inaugurazione della catena di fastfood El Pollo Loco.
I due splendidi sessantenni, lontani dal modello gradito a Nanni Moretti, si sono spartiti l’estate cinematografica. Compito difficile, anche gli Stati Uniti hanno sofferto i contraccolpi della pandemia, e nessuna industria può garantirsi la sopravvivenza puntando sul monoprodotto, nella fattispecie i film di supereroi. Tom Cruise ha sbancato i botteghini (o quel che ne resta) con “Top Gun: Maverick”: in cifre, un miliardo e 380 milioni di dollari, meglio di “Titanic”. Brad Pitt ha aperto il festival di Locarno con “Bullet Train”, nelle sale italiane dal 25 agosto.
Due film d’azione, uno all’opposto dell’altro. Il più contemporaneo sembrava “Bullet Train”, dal romanzo del giapponese Kotaro Isaka. Lo ha pubblicato l’anno scorso Einaudi Stile Libero con il titolo allegramente spoilerante “I sette killer dello Shinkansen” – lo Shinkansen è il treno velocissimo che va da Tokyo a Kyoto, il “bullet time” di “Matrix” non c’entra. Va detto che quest’anno anche Cannes ha aperto con un titolo orientaleggiante: il remake, diretto da Michel Hazanavicius, di un cult movie basato sull’idea: “e se sul set di un film di zombie arrivassero gli zombie veri?”. Doveva intitolarsi “Z”, dopo la guerra in Ucraina si intitola “Cut” (“Zombie contro zombie”, puntualizza il titolo italiano, uscirà il 31 ottobre).
Contemporaneo lo è, purtroppo nel senso idiota dei film che imitano Quentin Tarantino. Dimenticando un particolare: il regista aveva già saccheggiato con maggiore successo e originalità il Giappone in “Kill Bill”, capitolo primo e capitolo secondo (anno 2003 e 2004, ormai remoti anche per la generazione convinta che il cinema sia cominciato con “Le iene”). Il killer Brad Pitt ritorna al suo sporco lavoro dopo un momento di crisi, sbandamento e terapia (burn out, se vi sembra più chic).
L’incarico è facile facile, ricuperare una valigetta sul treno lanciato come un proiettile. Calcolo sbagliato, la valigetta color argento fa gola a tanti: tutti hanno preso lo stesso treno e tendono al chiacchiericcio filosofico zen (come i due killer che in “Pulp Fiction” prima di sparare discutono di massaggio ai piedi). Le scene d’azione un po’ si ripetono, il treno in corsa offre spazi limitati per inseguimenti e acrobazie. Luci al neon, pettinature rasta, soprannomi alla frutta come Tangerine e Lemon, attori che sfoderano accenti esotici. Un film molto compiaciuto, chi sta basso e non strafà è proprio Brad Pitt che a Locarno non si è fatto vedere per impegni concomitanti (o perché, ragazzo intelligente, aveva capito che gli spettatori impegnati del Lago Maggiore preferiscono Nanni Moretti).
Dirige il baraccone David Leitch: prima di buttarsi dietro la macchina da presa era stato la controfigura di Brad Pitt in “Fight Club”. In “Mr and Mrs Smith” era già diventato coordinatore degli stuntman, la fissazione hollywoodiana per i film d’azione ben coreografati (e a volte nulla più) lo ha spinto verso la regia. Comunque, un passaggio meno indolore dei direttori della fotografia che ambiscono – e purtroppo riescono – a diventare registi, accumulando cartoline senza una trama. Risvolto divertente tra vita e cinema, in “C’era una volta a Hollywood” Brad Pitt era lo stuntman di Leonardo DiCaprio – acrobazie che riescono solo a Tarantino.
Dare un seguito, 36 anni dopo, a “Top Gun” di Ridley Scott sembrava impresa disperata e narcisista. Solo Tom Cruise poteva riuscirci, con lo stesso ciuffo e lo stesso sorriso. Sennò il remake della scena “beach volley sulla spiaggia” sarebbe stato penoso, di fronte a Miles Teller. Il grande giovane attore, per non parlar dei muscoli, che nel film ha la parte di Rooster, figlio di Goose: lo sfortunato pilota che anni prima aveva fatto squadra con Maverick-Tom Cruise, ed era morto in missione (per questo il nostro, diventato istruttore per i giovani piloti della marina, aveva più volte respinto la domanda d’iscrizione del giovanotto). Voleva proteggerlo, ora insieme sgomineranno l’arsenale dello stato canaglia. Potenza dell’abitudine, lo aspettavamo deserto e assolato. Ha neve e foreste, pare proprio la Russia.
Apprezzamenti fisici a parte – si possono ancora fare, o poverini poi si offendono come maschi oggetto? – “Top Gun: Maverick” di Joseph Kosinski è scritto secondo le regole (da tre sceneggiatori: Ehren Kruger, Christopher Mcquarrie e Eric Warren Singer). Regole per il dramma e per la suspense: prima della missione, una simulazione illustra i punti difficili e i rischi. Quando i piloti decollano dalla portaerei sappiamo cosa e dove potrà andare storto. Lo aveva fatto già James Cameron in “Titanic”, prima dello scontro con l’iceberg sappiamo che la nave si inclinerà e si spezzerà in due.
“Is Tom Cruise the biggest movie star in the world?”, chiede il Los Angeles Magazine a una serie di addetti ai lavori. E allora Brad Pitt? Jeff Sneider che firma l’articolo liquida la questione così: “Brad Pitt è un caratterista con il fisico da protagonista, la star è Tom Cruise”. Opinione non condivisa da Quentin Tarantino, che trova Brad Pitt carismatico e splendente: “Non bastano le parole, sarebbe come descrivere la luce delle stelle”.
Owen Gleiberman di Variety sta con Tom Cruise, capace di trasformare ogni suo film in un evento, come i divi della vecchia Hollywood. “Top Gun: Maverick” anticipa (per la gioia dei produttori) il settimo – settimo! – film della saga “Mission: Impossible”. Facile scommettere che andrà benissimo (senza contare gli effetti collaterali: il pubblico ha un buon motivo per uscire di casa e divertirsi al cinema). L’attore non disdegna i tour promozionali all’antica, “hitting-the-ground”: gira volentieri per accompagnare il film, e si concede ai fan per ore.
Justin Kroll avanza la candidatura di Leonardo DiCaprio, l’unico tra i talentosi (e belli, soprattutto nella sua stagione efebica) che non ha avuto bisogno di saghe per portare la gente al cinema. Niente da fare, nessuno raccoglie. Neanche la bassa statura e la militanza in Scientology hanno danneggiato la carriera di Tom Cruise. Con la medaglia dell’ultimo film diretto da Stanley Kubrick, accanto alla consorte di allora Nicole Kidman, botulino-free (dopo il divorzio si è rimessa i tacchi alti, la fronte adesso è liscia tipo bambolotto). I fan più appassionati dicono “è l’ultima vera star del cinema, nessuno in vista dopo di lui”. Da notare: George Clooney è scomparso dall’orizzonte degli uomini sexy e degli attori impegnati (troppo Nescafé).
Di Brad Pitt conosciamo il matrimonio con Jennifer Aniston, la bruttina fortunata e invidiatissima, prima del tradimento. E quello con la rovinafamiglie Angelina Jolie, che ha prodotto un lungo “momento Mia Farrow”, tra bambini fatti e bambini adottati, con beneficenza in terra d’Africa e a New Orleans dopo l’uragano Katrina. Solo che – notizia dell’altro ieri – le 150 casette finanziate da Make it Right, l’organizzazione di Brad Pitt, si sono rivelate così difettose che il patteggiamento con i compratori ammonta a 20 milioni di dollari (colpa del legno ecologico, inadatto al clima della Louisiana). Ora che i Brangelina si sono separati, la seconda signora Pitt ha accusato il consorte di ogni nefandezza.
La figaggine non era mai venuta meno, dal meraviglioso spettacolo della cresta iliaca sfoggiata in “Fight Club” (anno 1999, regista David Fincher che lo vorrà anche in “Seven”). La ritrovata presentabilità sociale tocca il culmine lo scorso giugno, con un ritratto/intervista su GQ. Lo firma Ottessa Moshfegh, la scrittrice americana (di origine mezza iraniana e mezza croata) celebre per “Il mio anno di riposo e oblio”. La protagonista, con pasticche, tapparelle abbassate, e smartphone tacitato, spariva dal mondo per un anno. Fu subito culto, poi scalzato da altri culti periodicamente celebrati dalla setta dei lettori di un solo libro (dimmi il titolo che hai nel cuore, ti dirò quanti anni hai).
Le fotografie sono di Elizaveta Porodina, famosa per gli scatti lavorati che paiono quadri. Brad Pitt sta languidamente sdraiato, con un dito in bocca e un completo giallo tra Elvis Presley – nella vita e nel film di Baz Luhrmann – e Uma Thurman in “Kill Bill”. Color buccia di banana, ma luccicante, le scarpe vintage con la zeppa noleggiate da collezionisti. Brad Pitt indossa gonna e stivaletti, mostrando i polpacci tatuati. Brad Pitt galleggia tra fiori e ninfee, in pantaloni viola e camicia azzurra cangiante: la posa di un’Ofelia preraffaellita che si annega perché Amleto non vuole saperne di lei.
Guardaroba perlopiù Tom Ford: camicie da duemila dollari, per il basco in pelle di serpente il prezzo è “a richiesta”. Quando smettiamo di ammirare gli occhi cerulei, sottolineati dal trucco e dai filtri, Brad Pitt racconta. Mangiando pasticche alla nicotina: oltre a smettere di bere dopo il divorzio ha anche smesso di fumare, e si è impratichito nella ceramica. Riceve la scrittrice in California, una casa che secondo alcuni è stregata, e secondo alti nasconde nel terreno un antico tesoro. il divo racconta di essersi procurato gli strumenti per localizzarlo e dissotterrarlo – gli stessi che si usano nei monti Ozarks dove è nato – senza trovare nulla.
Brad Pitt svela il suo sogno ricorrente, qualcuno che sbuca dal nulla e lo attacca con un pugnale (sparito quando ha smesso di interrogarsi sul significato profondo, siamo tra lo zen e i saggi consigli del rabbino). Si dichiara infastidito per il culto californiano dell’autenticità. Cita il poeta persiano Rumi e Rainer Maria Rilke. Alla fine dell’intervista manda a Ottessa Moshfegh una mail con scritto nell’oggetto: “Summation, clarification, rumination” – l’esprit de l’escalier applicato all’intervista, per precisare e correggere.
The Spectator immagina di affidare Tom Cruise alle cure letterarie di Francis Scott Fitzgerald. Solo lo scrittore del “Grande Gatsby” avrebbe la penna adatta per l’ultima vera star che gira le scene pericolose senza controfigura. Un attore che ha lavorato con una lista interminabile di registi, che crede fermamente nelle sale, e nel rispetto delle norme Covid – ma per carità, invitava, “non interrompete le lavorazioni, sono il reddito di molte famiglie”.
Tom Cruise da anni produce i suoi film, con una squadra di fedelissimi. Brad Pitt ha avviato Plan B, casa di produzione per film diretti da altri registi, perlopiù tratti da libri. Per esempio “Blonde” di Andrew Dominik, tratto dal romanzo – meglio sarebbe dire: variazione, in senso musicale – di Joyce Carol Oates su Marilyn Monroe. Lo vedremo alla mostra di Venezia, apertura il 31 agosto con un altro film tratto da un altro (pochissimo adattabile) romanzo: “Rumore bianco” di Don DeLillo, diretto dal finora minimalista Noah Baumbach.
Politicamente corretto e panettone