A Venezia è il giorno dei film sui processi
Alla Mostra del cinema in laguna si distinguono i lungometraggi di Loznitsa e Mitre: una ricostruzione con immagini d'archivio e una splendida messa in scena
Due processi hanno segnato la giornata a Venezia, tra l’esasperante “Monica” di Andrea Pallaoro (ma non si può dire, c’è la trans Trace Lysette, inquadrata di scorcio quando è vestita, e più generosamente da nuda) e “Whale” di Darren Aronofsky che ha fatto singhiozzare gli spettatori (non uno, eran tanti a piangere calde lacrime ostacolando l’uscita chi voleva fuggire la melassa).
Un processo messo in scena splendidamente, e un processo ricostruito frugando negli archivi: questo fa da anni Sergei Loznitsa, con una preferenza per l’URSS. Sceglie le immagini, le monta, al massimo aggiunge qualche didascalia. I sovietici filmavano quel che c’era da filmare. La morte di Stalin, per esempio, nel film con lo stesso titolo. Gli altoparlanti che annunciano la notizia alle più lontane repubbliche, il fiume di folla che attende di rendere omaggio al defunto, i discorsi ufficiali davanti alla bara foderata di crespo rosso: rare immagini a colori nel bianco e nero (entrambi restaurati). Oppure “Austerlitz”, come il titolo scelto da W. G. Sebald per uno dei suoi libri: mostra i turisti che fanno la merendina nei campi di concentramento.
In “The Kiev Trial” - titolo internazionale del film fuori concorso, prodotto da Ucraina e Danimarca - ricupera le immagini della “Norimberga ucraina”, girate da professionisti del Centro di documentazione moscovita. E’ il gennaio 1946, sul banco degli imputati 15 nazisti. Finiranno impiccati sulla pubblica piazza, anche di questo vediamo le immagini, patiboli semplici ma efficaci, a chiusura del film (documentario è quando un regista gira le sue immagini, Loznitsa lavora su materiali sepolti negli archivi, e restaura anche il sonoro originale, ci sono vari interpreti al lavoro).
Dichiarazioni degli imputati, testimonianze, e infine la sentenza. Poco lontano, a Babi Yar, nel 1941 33 mila ebrei erano stati massacrati: in un altro film di montaggio il regista illustra il tragico “contesto” (e Adelphi ha pubblicato il resoconto di Anatolij Kuznecov: prima l’entusiasmo, in funzione antisovietica, poi le deportazioni verso la Germania). Uomini e donne davanti al microfono raccontano adulti e bambini massacrati, bisognava far spazio agli occupanti nazisti di razza ariana.
In “Argentina, 1985” Santiago Mitre, nato nel 1980, ricostruisce il processo a Videla e alla sua giunta. Sottratti alla giustizia militare e giudicati da un tribunale civile. Da un pubblico ministero che vediamo in famiglia, mentre il nuovo presidente Alfonsin sta decidendo del suo incarico - piuttosto rischioso: gli argentini compromessi con il regime si erano prontamente riciclati tra professioni e cariche pubbliche.
Il copione magnificamente scritto dimostra ancora una volta la sciocchezza di chi grida “spoiler spoiler!”. Davvero non sapete che Jorge Rafael Videla è morto in carcere? (oddio, potrebbe pure essere: due signorine ascoltate in coda, dopo il film di Guadagnino sui ragazzi cannibali, commentavano serissime: “com’è contorta la mente umana”, solo un leggero dubbio sull’ereditarietà del cannibalismo). Tanta attenzione a Netflix, e invece “Argentina, 1985” è prodotto da Amazon, senza ancora una data di uscita: le due ore e 20 forse saranno spezzettate in una serie, ma la tensione è notevole e rara.
Il pubblico ministero Strassera e l’assistente Luis Moreno Ocampo mettono insieme una squadra di giovani avvocati - chi aveva una carriera preferiva tenersela cara. Li sguinzaglia a caccia di prove e testimoni: dal 1976 al 1983 la giunta militare rapì e uccise 30 mila civili, considerandoli “terroristi”. In tribunale, portarono i faldoni con le prove relative a parecchie migliaia di vittime.
Politicamente corretto e panettone