la Mostra internazionale
A Venezia ci sono sprazzi di machismo d'antan nell'ondata gender fluid
Dopo giorni di uomini indistinguibili in continua mutazione ecco arrivare due maschi che fanno i maschi
Maschi irlandesi. Due. In patria, l’immaginaria isola di Inisherin – “Il maschio irlandese in patria e all’estero” era un libro di Joseph O’Connor, grande e spassoso scrittore come Martin McDonagh, regista e sceneggiatore. Maschi sporchi. Rudi. Collerici. Vendicativi. Bevitori di birra scura. Cappotti pesanti e scarpe infangate. Cocciuti, si tagliano un dito per scommessa. No gender fluid, neppure un’ombra, né una vaga tentazione. Dopo tanti giorni a Venezia, due maschi che fanno i maschi sono un bel vedere.
Il regista che ha osato, e per questo sarà trascurato dalla giuria, aveva girato “In Bruges”. Più noto come “fucking Belgium, fucking Bruges”. Maledetto da un furioso Colin Farrell: Brendan Gleeson lo manda a Bruges, punizione per un lavoro da sicario andato storto. I due attori tornano qui, bravissimi e al massimo della figaggine (esiste, anche dopo i 25 anni dell’efebo Timothée Chalamet). In “The Banshees of Inisherin” – titolo italiano: “Gli spettri dell’isola” – erano amici, il giovane passava a prendere il vecchio per andare al pub.
Improvvisamente Colm-Brendan Gleeson non vuole più vedere il compagno di bevute (ha un nome irlandese tutto consonanti, dopo 2 ore di film non osiamo pronunciarlo). Il respinto non capisce il voltafaccia. Tende trappole, fa intervenire il prete, chiede consiglio. Non è esattamente un posto dove se perdi un amico te ne restano altri, oltre a una sorella che legge (legge? da quelle parti è come la stregoneria, anzi peggio, le sinistre banshee ogni tanto si vedono). Niente da fare. Il neo-solitario dice di volersi dedicare alla musica, senza perdere tempo in chiacchiere noiose. “Però sono gentile”, avanza l’altro. Risposta: “Nessuno è mai passato alla storia per la sua gentilezza”.
Altro raro maschio pervenuto, Joel Edgerton: il giardiniere in “The Master Gardener” di Paul Schrader (premiato a Venezia con il Leone alla carriera, l’occasione per ricuperare “Il collezionista di carte” con Oscar Isaac). “Don’t Worry Darling” di Olivia Wilde è un film di donne, sarebbe meglio dire di colorati tubini anni 60. Mogli perfette aspettano a casa i mariti, in villette con giardino e piscina, il mobile bar e i grembiuli per sfornare l’arrosto (con i tacchi alti). I maschi sono quasi indistinguibili, fatta eccezione per Harry Styles (la fila delle ragazzine in attesa di autografo era più lunga che per Chalamet vestito da cioccolatino).
Tanti discorsi e tanta attesa per una brutta copia delle “Donne di Stepford”: romanzo e film anni 70, già rifatto nel 2004. Trama: in una cittadina leggiadra esistono solo mogli eleganti e devote, mai un malumore mai un rifiuto – per forza, le hanno sostituite con i robot. Aggiornate il repertorio, signore: basta con i film riscaldati. Il resto, lo sapete, è gender fluid. Una continua mutazione. Lasciamo la trans in “Monica” di Andrea Pallaoro (ma che senso ha, ai fini della trama, prendere un’attrice trans che non ha più nulla di maschile, perfino il seno pare naturale?). E arriviamo alla ragazzina che in “L’immensità” di Emanuele Crialese si sente maschio, vuole fare cose da maschio, e avere un nome da maschio. Segue dramma.
Ricordate in “Piccole donne” (Louisa May Alcott, 1868) una sorella March battezzata Josephine e più nota come Jo? Una ribelle che rompeva gli schemi, voleva mantenersi scrivendo romanzi e farsi avanti nel mondo da donna libera, senza bisogno di un marito. Bene. Ora invece siamo ridotti a scegliere tra “Le donne di Stepford” o trans? Bel passo avanti, complimenti! Con tanti auguri a Emanuele Crialese – che fosse nato “Emanuela” lo si sussurrava da tempo – per il Leone d’oro già vinto. O era una Leonessa?