Venezia 2022
Parlare di sé al cinema è da conformisti, per i ribelli c'è il documentario su Zeffirelli
Alla mostra c’è abbondanza di storie a sfondo autobiografico. Crediamo subito ai due irlandesi amici di lunga data: Martin McDonagh con “Gli spiriti dell’isola” e Paul Schrader con “Master Gardener". E a rallegrare gli occhi e la mente ci pensa il docufilm di Anselma Dell’Olio
Quando al cinema e in editoria lavorava gente cinica – di buon senso, in verità: ora domina la sensibilità delle viole mammole, tutto pare gravissimo – la regola era: nell’opera prima chiunque parla di sé, anche se racconta di omini verdi sul pianeta rosso. Adesso chiunque parla di sé, nell’opera prima, poi nella seconda e nella terza.
Senza la cortesia di mettere di mezzo gli omini verdi, il pianeta rosso, o qualsiasi altra cosa non esattamente riconducibile all’Autore (parola che abbiamo sempre odiato, ha solo il vantaggio di essere ambosessi). Alla Mostra di Venezia c’è abbondanza di storie a sfondo autobiografico. Della “desinenza in a” di Emanuele Crialese si parla da giorni, a corredo di “L’immensità”: film “molto sentito” ma poco riuscito. Gianni Amelio gira “Il signore delle formiche” ricordando di aver assistito ventenne a un’udienza del processo che condannò Aldo Braibanti per omosessualità (detta allora “plagio”). Né Crialese né Amelio hanno la forza – che al cinema significa immagini, recitazione, luci, dialoghi – per far trascinare lo spettatore nei rispettivi film.
Invece crediamo subito ai due irlandesi amici di lunga data, prima che uno decidesse di non rivolgere più la parola all’altro (“Gli spiriti dell’isola” di Martin McDonagh). Crediamo all’istante al giardiniere con segreti, in “Master Gardener” di Paul Schrader, lo sceneggiatore di “Taxi Driver” per Martin Scorsese. Crediamo all’istante nei giovani cannibali di Luca Guadagnino, “Bones and All”: se il Leone d’oro è destinato a un italiano – che però il cinema lo ha studiato fuori casa – nessuno può batterlo. Padri, figli, madri, matrigne son temi eterni, sviscerati a Venezia con quel sovrappiù di sentimentalismo che fa piangere gli spettatori complici. Dopo “The Father” – Anthony Hopkins spaesato con l’Alzheimer – Florian Zeller ha portato “The Son”.
Parlando di cinema, ha lasciato un intelligente modo di raccontare (lo spaesamento coglieva anche lo spettatore) per una furbata sentimentale, con dichiarazione da titolo: “Ora guardo i miei figli adolescenti in maniera diversa”. Alice Diop, seriamente candidata al Leone d’oro, racconta una Medea contemporanea, arrivata a Parigi dal Senegal. Da una storia vera, l’infanticida invocò la stregoneria: il processo è molto ben ricostruito e girato. Il finale riconduce all’autobiografia, non si scappa. Per rallegrare gli occhi e la mente, il documentario che Anselma Dell’Olio dedica a Franco Zeffirelli (dopo “La lucida follia di Marco Ferreri” e “Fellini degli spiriti”).
“Il conformista ribelle”, figlio illegittimo, che mise in scena a Londra “Sabato, domenica e lunedì” di Eduardo De Filippo, con il ragù cucinato in scena (per la fortuna dei rari ristoranti italiani nelle vicinanze, erano gli anni 60). Ebbe Judi Dench nel ruolo di Giulietta (scandalo: Mercuzio si accostava al muro per un bisogno urgente). Disse a Giancarlo Giannini di recitare Romeo “come un gatto innamorato”.
Moltissimi aneddoti e testimonianze, in rapido montaggio senza voce fuori campo (la rovina dei documentari, sia messo a verbale, e il narratore celebre fa ancora più danni). “Un uomo del Rinascimento”, dice Andrea Minuz (ovunque sia, Zeffirelli sorride, “era ora che qualcuno se ne accorgesse”). Uno scolaro che pregava la Madonna prima delle interrogazioni (con successo, pare). L’allievo e poi rivale di Luchino Visconti: vennero alle mani, si racconta, e una testimone certificò “si menavano come òmini”. Ricorda Anna Magnani che nelle pause di scena spulciava i gattini randagi del Tuscolano. A noi torna in mente Paolo Poli, quando raccontava che lui e altri giovani ospiti gli rubavano le giacche dall’armadio.