Harry Styles alla 79esima Mostra del Cinema di Venezia (Ansa)

Il Foglio del weekend

Adesso è il tempo del dolore dei divi

Andrea Minuz

C'è stato il momento dell'ambientalismo, ora c'è quello dei traumi della vita passata: le star del cinema sul set trasmettono il loro passato tormentato. Tutti vogliono rendere pubblica la loro fragilità

La maggior parte delle persone va al cinema per vedere i propri attori preferiti” diceva Carl Laemmle, padre fondatore e creatore della Universal, “tutti gli altri ci vanno per accompagnarli”. Dopo oltre un secolo, col cinema messo tra i vecchi giocattoli in soffitta, l’economia di Hollywood si regge pur sempre su questa battuta. Però che fatica essere divi oggi! Che gran confusione nel vasto oceano della “celebrity culture”, dove chiunque rivendica un po’ di riflettori addosso e almeno un documentario su Netflix o Amazon Prime. Le vecchie glorie del Novecento non dovevano aggiornare in continuazione usi e costumi della loro immagine divistica. Ma oggi l’agenda cambia in continuazione. L’impegno, la sensibilità, la coscienza green e l’ambientalismo non bastano più. Lo star system, o quel che ne resta dell’èra di TikTok, esige ormai anche un curriculum di abusi, percosse, disturbi alimentari, molestie, bullismo. Veri, presunti, o almeno indossati con pathos in un ruolo da cui poi si esce “cambiati per sempre”. Quanta dolenza sui red carpet! E sfilate di traumi, sofferenze, patimenti e tribolazioni in conferenza stampa o sotto i flash dei fotografi. Mancando magari una biografia tormentata, le performance attoriali si fanno sempre più gravose. Per entrare nei panni di Marilyn in “Blonde”, a breve in arrivo su Netflix dopo l’anteprima a Venezia, Ana De Armas ha raccontato di aver “creato un collegamento con il suo dolore e il suo trauma”. Il film è una versione assai horror e spietata del mito, come usa ora con i biopic (vedi la Diana Spencer di Pablo Larraín), con climax e anticlimax che convergono in lunga fellatio cupa e rassegnata, sotto la scrivania di Kennedy, “maschio tossico” che più non si può. Ma non basta interpretare Marilyn (ormai la parola non si usa neanche più). Bisogna sentire il suo dolore. Ci vuole il transfert, il contatto spirituale, l’epifania. Ci vogliono capacità sensorie e allucinatorie. “Mi sembrava di vivere quella pesantezza e sentivo quella tristezza. E’ stato difficile liberarmene, sono accadute molte cose sul set durante le riprese. Credo fosse con noi”. 

 

Persino Stefania Sandrelli, anche lei a Venezia, sente il bisogno di rievocare le botte prese da un ex calciatore, oggi scomparso. Non c’è scampo

 

Sempre a Venezia, ecco Shia LaBeouf, enfant prodige, bad boy e da tempo “persona non gradita” a Hollywood, che diventa Padre Pio per il film dell’outsider Abel Ferrara, regista di culto adottato dalla bohème romana dell’Esquilino. Succede che sul set l’attore vede la luce e si converte. Potenza del cinema americano. “Non è un lancio pubblicitario”, spiegava il suo agente, “chi conosce l’attore ha confermato il suo cambiamento interiore durante la lavorazione” (che gran film dei fratelli Coen sarebbe! L’attore ebreo che entra un po’ troppo nella parte, vede Padre Pio sopra la macchina da presa, s’inginocchia, abbraccia la fede, scopre Gesù). Non sono solo le solite solfe da “Actor’s Studio”. C’entra anche un certo modo di essere star oggi. C’entra la necessità di costruire un’immagine pubblica in linea coi tempi che cambiano a gran velocità. Persino Stefania Sandrelli, vista anche lei a Venezia, sente il bisogno di rievocare la raffica di botte prese da un ex calciatore della Lazio, oggi scomparso, smanioso di saltarle addosso senza permesso. Non c’è scampo. Anche tra i feticci erotici dei vecchi boomer si fanno strada traumi, sofferenze, dolenze.

Fino all’altro ieri bastavano le donazioni al Darfur, le campagne Unicef, le adozioni a grappolo in Ruanda, Malawi, Sudafrica: Angelina Jolie e Brad Pitt, Charlize Theron, Madonna, Cate Blanchett, Jane Fonda, insomma un po’ tutti si fotografavano coi figli adottivi. Anche Woody Allen, a cui la cosa però, com’è noto, sfuggì di mano. Ma i figli non sembrano più così cool. Anche se poveri, orfanelli, salvati dalla miseria e dalla fame, soffrono la competizione con la nuova missione delle star: salvare il pianeta. All’alba degli anni dieci, l’ondata ambientalista ridisegnava l’immagine dei divi. In una lotta senza quartiere al climate change, sulla scia dell’“Inconvenient Truth” di Al Gore, del #zerowaste, di #mothearth e #fatherocean, le star di Hollywood si immortalavano con borracce “salva-Terra”, sacche di cotone eco-friendly, balsami vegani, creme idratanti “cruelty-free”. Entravano nei “comitati per la sostenibilità” delle aziende, vestivano plastica riciclata, come Emma Watson al Met Gala del 2016, indossavano “scarpe vegetali”, come Natalie Portman, ambientalista convinta sin dall’infanzia. Oppure si davano alle televendite su Instagram, come con l’erboristeria di Gwyneth Paltrow, che prova in diretta i suoi olii nutrienti e bagnoschiuma, ma poi si dimentica di chiudere l’acqua della doccia e i fan quasi la linciano (ve l’immaginate Bette Davis che deve chiedere scusa perché ha lasciato il rubinetto aperto o non fa la differenziata?). Più o meno sistematicamente, subito dopo “attrice” o “modella”, compare ormai la parola “attivista”, che sostituisce il vecchio “artista impegnato”, e va bene  per il pianeta, il Black Lives Matter e i diritti. 

 

Sistematicamente, dopo “attrice” o “modella”, compare ormai la parola “attivista”, e va bene  per il pianeta, il Black Lives Matter e i diritti

 

Dopo dieci anni di ambientalismo (il documentario di Al Gore è del 2007), il ciclone del #MeToo dava un’altra gigantesca spallata al sistema. Le star si adeguavano. Le molestie sessuali si allargavano via via in un generico, vago, nebuloso bisogno di confessare traumi di qualsiasi tipo. Le rivendicazioni femministe sconfinavano nell’ondata di “body positive”, e se non c’era di mezzo il sexual harassment, ecco il bullismo. Tutti, improvvisamente, avevano sofferto una qualche discriminazione da piccoli. Vittime di gesti, parole, insulti, cartoccetti tirati addosso dall’ultimo banco. Tom Cruise dislessico, Lady Gaga buttata nel cassettone dell’immondizia, Madonna sbeffeggiata per i peli, Miriam Leone per le sopracciglia, Justin Timberlake per i capelli brutti, Eva Mendes per i denti giganti, Avril Lavigne per gli occhiali, Rihanna aveva le tette troppo grandi, Micaela Ramazzoti troppo piccole. Un’epidemia inarrestabile di infanzie e adolescenze tormentate e complessate per colpa degli “haters”, quando ancora non si chiamavano così, ma erano solo il nostro compagno delle medie un po’ stronzo e più grosso di noi. E naturalmente libri, documentari, interviste che diventano ormai sedute di psicanalisi (dal documentario su Tiziano Ferro, quasi tutto sulla sua obesità giovanile, all’autobiografia di Giorgia Meloni, con la madre che doveva abortire, il padre che scappa alle Canarie).

Il cinema è stato insomma un gran laboratorio di prototipi. Una fucina di “vulnerabilità” e “fragilità”, tratti distintivi e cifra specifica delle celebrity del XXI secolo, in cui difetti fisici, complessi, insicurezze, traumi si sostituiscono agli ideali di bellezza, eleganza, fascino, forza dei vecchi divi del Novecento. A un certo punto, non bastavano più i famigerati “ruoli da Oscar”, come ai tempi di Dustin Hoffman autistico in “Rain Man” o Daniel Day Lewis paralizzato in “Il mio piede sinistro”. Ci voleva un po’ di dramma anche nella biografia. Quando Charlize Theron vince l’Oscar per “Monster”, siamo già nella nuova èra. C’è la performance dell’attrice che diventa una serial killer di uomini, con una vita disastrosa alle spalle, e c’è la biografia traumatica dell’attrice, con la madre che dopo l’ennesima lite ammazza il padre alcolizzato e violento davanti agli occhi della piccola Charlize in Sudafrica. Insieme alla “vulnerabilità”, l’altra grande area di costruzione della star strategy pesca naturalmente nella galassia “genderless”, che apre anche un radicale conflitto generazionale tra star dei boomer e star della generazione Z. Sono i nuovi divi visti a Venezia: Chalamet, Harry Styles, Sadie Sink. Vengono dal cinema, dalle serie tv, dalle boy band, dai talent, dai social, non importa. Non c’è una gerarchia. Sono per lo più sconosciuti o quasi a chi ha più di quarant’anni. Anche perché il loro divismo non passa da giornali e tv (del resto “è sempre successo”, come ha scritto Alberto Crespi su Repubblica, in rappresentanza di tutti i boomer ignari del fenomeno: “A un certo punto ai festival del cinema sbarcano gli alieni”).

  

La galassia “genderless” apre un  conflitto tra star dei boomer e star della generazione Z. Sono i nuovi divi visti a Venezia: Harry Styles, Sadie Sink

 

Qui l’inclusività conta assai di più dell’impegno eco-friendly. Il caso Harry Styles, celebrity pop prestata ogni tanto al cinema, ma che a Venezia ha mandato in delirio i fan più di chiunque altro, è esemplare. Panettiere part-time nel Cheshire, a sedici anni partecipa a “X Factor”, dove viene messo insieme ad altri quattro boys: nascono gli “One Direction”. Successo planetario. Subito i fan iniziano a costruire una bromance immaginario tra Styles e Louis Tomlinson, altro membro della band. Si guardano sempre negli occhi, si cercano, si amano, forse sì, forse no. Si annuncia persino un matrimonio imminente. Le teorie sui social impazzano.  Styles nel frattempo inizia una carriera in solitaria. E’ l’unico a sopravvivere. Gli altri si eclissano rapidamente e finiscono nel dimenticatoio. Viene accusato di “queerbaiting” (qualcosa come mandare messaggi allusivi e contrastanti sulla sua sessualità a scopo di marketing per attirarsi le simpatie della comunità Lgbtq+; da noi c’è l’esempio di Achille Lauro, il bacio con Boss Doms a Sanremo e ovviamente la parata di travestimenti). Lui però dice di non volere etichette. Veste solo lustrini, boa di struzzo, pizzo, gonne, anelli, collane appariscenti, pochette, ma sta con Olivia Wilde, regista di “Don’t Worry Darling”, presentato a Venezia con gossip sfrenato su corna e litigi sul set. In “My Policeman”, Harry Styles è un poliziotto sposato con tormentata relazione omosessuale (siamo nella Brighton degli anni Cinquanta). Tutta la sua carriera, nel pop, nel cinema, sui social si è costruita nel segno del genderless. 

 

Né DiCaprio, né Brad Pitt o Tom Cruise riuscirebbero a simulare una qualche vulnerabilità o fragilità in modo credibile, con la gonna o senza

 

Styles, va da sé, è un’altra creatura di Alessandro Michele, il guru di Gucci che ha un ruolo di primo piano nell’assemblaggio dei nuovi divi (lo star system è sempre più in mano agli stylist, ormai contano più degli agenti). Ma la chiave dei divi fluidi è soprattutto il rapporto con i fan. Tendono a mettersi alla pari, a esaltare l’orizzontalità e l’illusione di prossimità. Ai concerti Harry Styles parla col pubblico sotto al palco, si ricorda di chi ha seguito più tappe del tour, legge i loro cartelli, dà consigli sentimentali, tipo posta del cuore. A Wembley ha aiutato un ragazzo italiano a fare coming out, “Mattia sei libero!”, con un rito improvvisato, un po’ da telepredicatore americano. L’altro idolo gender fluid, Timothée Chalamet, a Venezia con un film di Guadagnino, dopo l’exploit di “Call me by your name”, ha invece un target più arthouse, sofisticato, cinefilo. Eccolo sull’ultimo numero di British Vogue, primo uomo da solo in copertina in centosei anni di storia del mensile femminile più celebre. “Chi meglio di lui”, dice l’editoriale, “può incarnare il nuovo uomo che va bene per tutti”. Già leggendaria la sua schiena nuda sul red carpet, “sfolgorante e fluidissima”, subito diventata virale. Un segno dei tempi, un po’ come i pantaloni di Katharine Hepburn negli anni Trenta. Ma certo vestirsi fluidi non basta. Quando alla prima di “Bullet Train”, Brad Pitt si è presentato con la gonna ha fatto un po’ l’effetto del Cav. su TikTok. L’accoglienza è stata tiepida. I social non hanno approvato. Inutile provare a fare il giovane fluido, anche se la gonna se l’era messa solo per il gran caldo. Il fatto è che Harry Styles e Chalamet sono più vicini, prossimi, accessibili, o almeno così sembra agli occhi dei loro fan. Soprattutto, coi loro corpi magri, efebici, un po’ rachitici, quei volti “caravaggeschi” senza segni di mascolinità old-fashioned, sono l’emblema della fragilità e vulnerabilità delle nuove star, oltre che segno della “genderless attitude” di massa. Incarnano il nostro tempo, come gli hard bodies degli anni Ottanta, Stallone, Schwarzenegger, Bruce Willis, erano l’immagine aggressiva dell’America reaganiana. La novità è che la frattura generazionale con i divi di ieri è radicale. Tom Cruise non ci sembrava un alieno rispetto a Paul Newman. Bruce Willis era un aggiornamento di Steve McQueen. Star di epoche diverse, ma sempre costruite nella stessa logica di ruoli, pose, personaggi. Tutto quel mondo è invecchiato di colpo in una manciata d’anni, a una velocità supersonica. E i genitori boomer faticano a passare da Bruce Willis a Chalamet. Né Leonardo DiCaprio, né Brad Pitt o Tom Cruise riuscirebbero poi a simulare una qualche vulnerabilità o fragilità in modo credibile, con la gonna o senza. Non li salverebbe un po’ di dolenza, un’infanzia traumatica, neanche un restyling di Alessandro Michele. Il caso DiCaprio fa scuola. Con gran tempismo fu tra i primi a sintonizzarsi sull’impegno per l’ambiente e la coscienza “green”. DiCaprio era in prima linea per salvare il pianeta e tutti lo amavano. Poi è stato tagliato fuori dall’ondata gender fluid. Troppo ancorato alle vecchie abitudini: fidanzate giovanissime, feste di capodanno su un’isola deserta circondato da un esercito di modelle. Insomma, un pezzo di modernariato di fine Novecento. Un “vecchio maschio tossico”, come dicono i miei studenti.