Foto di Felix Mooneeram, via Unsplash 

La fu "eccezione culturale"

Il lamento del cinema francese contro Macron, che aiuta tv e Netflix

Mariarosa Mancuso

La politica “del libretto degli assegni” non paga. La multinazionale attua condizioni di lavoro insostenibili, senza pause, in cui agli attori sembra di star facendo un altro mestiere. D'altra parte lo streaming offre contratti più generosi e duraturi

"La casa brucia e noi guardiamo Netflix”. Era la copertina di Libération, mercoledì scorso. Il cinema francese, dopo anni di prosperità basati su “l’eccezione culturale” –  la cultura di un paese non può essere regolata solo dal mercato, sono ammessi sussidi e protezionismo – prende atto che la fuga degli spettatori riguarda anche la Francia: 30 per cento in meno rispetto al 2019. 

 

La gente del cinema invoca gli stati generali, e inveisce contro il presidente Macron che ha abolito il canone tv (da gennaio, era una promessa elettorale del secondo mandato). Altra grave colpa: concedere alle piattaforme di operare sul mercato francese senza intermediari. Non sono bastati i 342 milioni di euro destinati al cinema in tempo di pandemia. Più altri 50 milioni a sostegno delle produzioni. Per confronto: l’Italia ha perso circa la metà degli spettatori, sul sito del Mibact sono registrati 150 milioni di aiuti a fondo perduto per le sale, 240 milioni per potenziare il Fondo Cinema e Audiovisivi, esenzioni Imu, potenziamento tax credit. Registi produttori e distributori si sono riuniti a convegno prima della Mostra di Venezia, lo faranno di nuovo nei giorni della Festa di Roma.

 

Non è finita. Macron ha nominato presidente del Cnc – principale ente di supporto e finanziamento del cinema francese –  il suo fedelissimo Dominique Boutonnat, che aveva firmato un rapporto sul ruolo dei privati nel finanziamento dei prodotti audiovisivi senza usare mai la parola “cinema”. Lo ha riconfermato nel luglio scorso, quando già si sapeva delle presunte molestie, ai danni di un figlioccio, per cui è stato rinviato a giudizio. 

 

La politica del libretto degli assegni – così la chiamano attori, registi, lavoratori dello spettacolo – non ha pagato. Da qui la riunione a porte chiuse che si è tenuta giovedì scorso all’Institut du Monde Arabe: un momento di riflessione collettiva anticipato dall’allarmistica copertina e da una serie di articoli sullo stesso tenore. La cronaca registra una voce – non identificata – che invitava a “smetterla con gli insulti agli spettatori, il cinema esiste perché ci sono loro”.

 

La sceneggiatrice e regista Agnès Jaoui (“Il gusto degli altri”, non disponibile su nessuno streaming, è il momento di chiedersi “cosa li paghiamo a fare tutti questi abbonamenti”) ha descritto con bella sincerità la situazione: “Quando scrivo e giro un film sono Dio. Quando lavoro per la televisione sono un’impiegata sotto un padrone che in realtà è impiegato sotto un altro padrone, che a sua volta ha un padrone”

 

La contestata porosità tra cinema e televisione ha un effetto benefico sulle professioni tecniche. Netflix e le altre piattaforme offrono contratti più generosi. E duraturi. Attori e attrici giudicano le nuove condizioni di lavoro intollerabili: “Mi è sembrato di fare un altro mestiere, ma ero solo io a lamentarmi; ho pensato ‘prendi i soldi e scappa’, poi sono tornata al teatro che consente pause”. Con tutto il rispetto: siamo di fronte a chi rifiuta di lavorare per una serie che potrebbe aver successo e proseguire per varie stagioni. Seguendo il ragionamento, George Clooney non avrebbe dovuto firmare il contratto per “E. R”, restando sconosciuto ai più.

 

C’è voluto Romain Gavras, per smetterla con i lamenti: “Senza Netflix non avrei mai potuto girare ‘Athena’”: un gran film, con un piano sequenza di oltre dieci minuti che introduce un paio di personaggi in guerra nella banlieue. Sono fratelli, ognuno vendica a suo modo la morte di un terzo fratello ragazzino. Una moderna tragedia greca, neanche il cinema francese può vivere di sole commedie, romantiche e no.

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