il primo spettacolo multimediale globale
Si può tornare a vedere l'opera lirica al cinema
La bella “Aida” di Pappano e Carsen in diretta da Londra è meglio dello streaming: tutto molto spento, chiuso, claustrofobico. I balletti sono ben risolti e la recitazione di Elena Stikhina è eccezionale
Basta streaming, si può tornare a vedere l’opera al cinema. Posto che è preferibile farlo a teatro, che in sala è un’altra cosa, che l’emozione è più forte con il live, diamo per detto l’ovvio, il grande schermo è senz’altro meglio di quello del pc domestico. Si vede meglio, si sente meglio, e poi il teatro è un rito collettivo, un piatto da consumare in gruppo, senza quel tanto fra il carbonaro e il masturbatorio che è l’audiovisione in solitaria. Oddìo, non è che all’Arcobaleno di Milano, mercoledì per la nuova Aida Pappano-Carsen in diretta da Londra ci fossero proprio le folle. Una ventina di aficionados, con due insolite minoranze: una di ragazzi e l’altra di britannici. Però è interessante che, benché al cinema, si assista in modalità teatrale: niente popcorn, silenzio quasi totale (più che fra le scocciatrici scartocciatrici di caramelle della Scala, in ogni caso), perfino con un accenno di applauso all’ingresso di sir Tony. La confezione è sontuosa: interviste, spiegazioni della trama tipo Aida for dummies, trailer delle proiezioni prossime venture. L’unica cosa che non si riesce a capire è se al Covent Garden hanno già fatto in tempo a ricamare sul sipario il nuovo monogramma reale CIIIR al posto dell’Eiir cui eravamo abituati da settant’anni.
Spettacolo notevole. Robertino Carsen elimina tutta la Gardaland pseudoegizia e cementifica le scene in un bunker tappezzato di ritratti del caro leader. Siamo in Corea del Nord, si direbbe, tanto più che il Re è un basso orientale, però mimetiche e uniformi danno più sull’americano. In quest’Aida dezeffirellizzata è tutto molto militare, con saluti, marce, il terz’atto sulle rive non del Nilo ma del Milite ignoto e la fatal pietra che si chiude sul magazzino delle bombe del dottor Stranamore. Nessun trionfo d’Egitto, poi: semmai, la mesta cerimonia di ripiegare le bandiere sulle bare dei gloriosi caduti. La povera Aida entra portando guanti e borsetta scarlatti di un’Amneris in tailleur, mentre tutte le altre donne o sono in uniforme o in grigio schiava.
Tutto molto spento, chiuso, claustrofobico, balletti ben risolti, recitazione eccezionale e insomma grande regia, con l’eccezione della scena del giudizio dove Verdi ha messo i cori fuori scena e lì è bene che restino. E, poiché i sacerdoti sono soldati, manca l’anticlericalismo fortissimamente voluto da Verdi, che rimproverava il librettista Ghislanzoni di non aver fatto i preti “abbastanza preti”, e non si trattava di un apprezzamento. Direzione in sintonia di Pappano, perché un conto è voler fare l’Aida lirica che tutti auspicano, un altro saperla fare: e sir Tony ci riesce alla grande, con gran sfoggio di colori orchestrali e pianissimi e acquerelli ma sempre “dentro” il racconto, mai come bellurie fine a loro stesse. Elena Stikhina, Aida, non ha un timbro opulento, ma canta e recita benissimo. Idem Agnieszka Rehlis, Amneris, che però nel ricordato giudizio finisce annegata nella massa sonora dei sacerdoti. Al netto di un orrido falsetto nel famigerato si bemolle acuto pianissimo e “morendo” di “Celeste Aida”, Francesco Meli è un Radamès di rara raffinatezza. Ludovic Tézier, Amonasro, sembra raddoppiato di volume, ma solo nel fisico.
Non è certo la prima volta che si va all’opera al cinema, ma speriamo che non sia nemmeno l’ultima, anche se il riscontro degli spettatori non pare incoraggiante. Il problema, al solito, è più psicologico che pratico, quello di un pubblico del teatro musicale che si sente una fortezza assediata in un mondo ostile e vede la contemporaneità, tecnologia compresa, sempre come una minaccia e mai come un’opportunità. E invece che bello ottemperare all’invito della Royal opera a commentare lo spettacolo sui social, hashtag #ROHaida, e leggere giudizi e impressioni a caldo dal mondo globalizzato (molte sciocchezze, anche, ma non più di quelle da foyer medio della Scala, e nemmeno un poveroverdi che abbia twittato, appunto, “povero Verdi!”). Che poi, a ben pensarci, il primo spettacolo multimediale e globale inventato dall’uomo, anzi dagli italiani, è stato, appunto, l’opera lirica.