pellicole tra padelle e barbabietole
A cena non si parla più di cinema, ma in sala ci sono tutti film culinari
Dal piano sequenza di “Boiling Point”, che sfrutta l'ambiente rissoso tra tavoli e fornelli, alla perfidia di “The Menu”, che da thriller sogna di diventare horror. E poi "Sì, Chef! - La brigade", contributo francese che abbandona il cibo in cucina e lo trasferisce in un centro per ragazzi immigrati
Non sono solo le sale vuote. È che di cinema non si parla più. A cena, intendiamo. Il tempo dei litigi su Kubrick o su Scorsese – buon compleanno, ha appena compiuto 80 anni – è un vago ricordo. Non perché vediamo i film di altri registi. Parlare di cinema, magari aggiungendo qualche argomentazione al “mi piace/non mi piace” – al pari dei tifosi quando parlano di calcio – viene considerato una bizzarria. Meglio stare sul sicuro e limitarsi a borbottare “c’è crisi”.
A cena si parla solo di cibo, di erbe, di cotture a bassa temperatura, di macellai e di chef. Sviscerando la materia con una precisione e un linguaggio da far invidia ai sofisti. Nulla è abbastanza ricercato, raro, o prezioso, per gli iniziati che immaginiamo abbiano superato crudeli riti di passaggio.
Ora siamo circondati. Stanno arrivando nelle sale tre film su chef e cucine. Non sono documentari, sono film di finzione con una trama. Nel caso di “Boiling Point - Il disastro è servito” c’è un piano sequenza che dura una novantina di minuti e ha richiesto molte prove per non far cadere i piatti, non inciampare, non urtarsi. Il ristorante a Londra è pieno di clienti, siamo alla vigilia di Natale, lo chef è nervoso dopo un’ispezione sanitaria, la brigata di cucina azzoppata dalla mancanza di pesce e altri ingredienti che non sono stati ordinati, a un tavolo è seduto lo chef rivale in compagnia di una perfida critica gastronomica. Tutto quel che può andar male andrà male, fino allo choc anafilattico – un’allergia mal segnalata.
“Boiling Point” (già nelle sale) è diretto dal britannico Philip Barantini, che va veloce come un razzo e sfrutta l’ambiente chiuso e rissoso fra tavoli e fornelli. “The Menu” di Mark Mylod (nei cinema oggi) segue una coppia e altri ospiti su un’isola privata dove lo chef Ralph Fiennes ha collocato il suo ristorante tutto marmo lucido. Dodici clienti, al modico prezzo di 1.250 sterline ciascuno, vivranno un’esperienza unica. Nessuno va più a mangiare, sono “esperienze sensoriali” come si dice alle terme che vogliono darsi un tono. E ora vorrebbero trasformare in “esperienza” anche il cinema: così suggeriscono gli esperti che intendono riportare gli spettatori nelle sale. Il film è solo un pretesto.
Il regista, uno sceneggiatore e il produttore di “The Menu” avevano già lavorato alle serie “Succession”. Garantiscono un po’ di perfidia. Nella composizione della dozzina di ricchi, qualcuno famoso, e nelle isterie dello chef che presenta i suoi piatti (si fa per dire) con elaborate coreografie. Il personale in sala e in cucina viene sottoposto alla più stretta disciplina militare. L’escalation vira verso il thriller, e poi verso l’horror per spettatori che un horror vero non lo andrebbero a vedere mai.
“Sì, Chef! - La brigade” di Louis-Julien Petit è il contributo francese al terzetto culinario (uscirà il 7 dicembre). Una chef che viene licenziata per futili motivi. La rissa con la proprietaria del ristorante – che va in tv ma in cucina non mette piede da tempo – è in verità piuttosto violenta. Ma provate voi a restare seri quando si discute di un piatto chiamato “organo di barbabietola”: cilindretti di varie altezze e sfumature di colore ricavati dalle barbabietole.
La chef si licenzia, e finisce – colpa di un annuncio bugiardissimo – in un centro per ragazzi immigrati. Giocano a calcio, mangiano ravioli in scatola e sdegnano l’arte di sbucciare i cipollotti: “Al mio paese gli uomini non cucinano”. Una disciplina da squadra di calcio e uno schema alla lavagna bastano per convertire tutti allo scalogno. Alcuni sono già maggiorenni e rischiano il rimpatrio. Ma la cucina fa miracoli.
“Glicked” o “Wickiator”